
tempo di lettura: 7 minuti
La cittadina, o ammasso caotico di case che dir si voglia di Runingër si trovava in fondo alla valle ed era da sempre l’ultimo posto abitato prima delle montagne Rosse.
Morin era nato in quella città ed ora alla bella età di 32 anni, assieme alla moglie Mara, gestiva “La vacca grassa”, la locanda del paese, ereditata dalla buonanima di suo padre. Aveva tentato di cambiare il nome in qualcosa di più bello tipo l’elfo appeso o cose del genere, ma gli avventori che andavano a bere al grido di “Ci sei anche tu alla grassa stasera?” non ne avevano voluto sapere. In ogni caso gli affari andavano e non si poteva lamentare, così aveva lasciato perdere e tenuto anche quell’eredità del suo genitore maschio.
Morin non era troppo schizzinoso in fatto di avventori, alla sera e fino a notte inoltrata, potevi trovarci a bere e giocare soldati, puttane,, ruffiani di ogni risma, addirittura qualche membro dell’altra specie che capitava di lì per caso o per usufruire del comodo stallaggio e delle stanze che Morin affittava per un giusto prezzo e che avevano come sovrappiù un’uscita veloce sul retro, dove la locanda confinava con la collina che limitava l’area cittadina a nord.
I bicchieri, appesi al soffitto, come in tutta quella parte di mondo, attestavano che il regno di Re Gundarin era vicino.
La guarnigione della cittadina, chiudeva ogni sera le porte che davano verso l’esterno e caricavano faticosamente i pesanti trabucchi, pronti a scagliare palle di fuoco nel caso a qualche specie di progenie della luce, fosse vento in mente di avvicinarsi troppo.
Li odiava quei maledetti! Ma odiava anche quegli incapaci di guerrieri che avevano voluto fare le cose più grandi di loro.
Cosa gli era saltato in mente a re Ostram di attaccare Eleana, la città di Re Gundarin con i suo 500 maghi a difesa, proprio quando si stava svolgendo la più grande festa popolare del regno? Erano tutti là, tutti all’interno e all’esterno di quella città ad aspettarli ed ora, il su popolo non aveva un Re e per bere qualsiasi cosa bisognava mettersi a 90 gradi, aprire la bocca e stappare la bottiglia verso l’alto, perché tutti i liquidi andavano al contrario rispetto a tutte le altre cose.
In quel luogo dimenticato dagli antenati, anche la birra andava bevuta tenendo il bicchiere rovescio e girandolo a poco a poco. Non era per niente facile e il risultato era che oltre al pavimento alla sera doveva pulire per bene anche il soffitto.
Suo padre lo aveva lasciato lì a gestire una moglie infedele e oscenamente brutta e una matrigna che aveva esattamente i suoi anni, sposata dal padre in seconde nozze che secondo i paesani era stata il motivo per cui era schiattato anzitempo.
Ludilla, questo il nome, aveva due splendide gambe pelose, di que,l colore marrone uguale a quando la terra è bruciata, e con i denti limati come non si erano mai visti prima, che lo facevano sognare ogni volta.
Se solo il padre o i suoi paesani avessero saputo che lui avrebbe voluto passare notti intere con quella donna e non con sua moglie lo avrebbero preso e portato in cima ai monti e lasciato lì a vedersela con quei maledetti draghi che infestavano la zona con i loro cavalieri.
Cercava di tenersi lontano ma lei lo faceva impazzire con i suoi modi così invitanti.
Ogni tanto aveva provato a fare approcci, pensava che essendo lui il padrone di casa e aveva diritto di vita e di morte su tutto quello che si muoveva sotto il proprio tetto, o almeno pensava fosse così, lei gli dovesse un po’ di gratitudine almeno.
Ludilla alla fine aveva accondisceso ma da donna per bene aveva sempre preteso di essere pagata per qualsiasi prestazione come una onesta lavoratrice. Diceva che si sentiva più tranquilla così e meno disonorata se si fosse venuti a saperlo, un conto era una prestazione professionale, un conto era uno scambio di intimità con la propria madre, anche se acquisita in terze nozze.
Mara sua moglie non vedeva di buon occhio queste sue riunioni con la matrigna e cominciava a sospettare qualcosa. Si sa che se lo avesse colto in flagrante avrebbe avuto la scelta se fargliela pagare (subito o più avanti) o decidere che la cosa non le interessava e condividere il caprone con l’altra donna, magari traendone qualche vantaggio. Stava solamente a lei capire cosa fare.
Le due mogli precedenti di Morin, purtroppo erano scivolate dalla scala che scendeva sul retro dai piani superiori e si erano rotte l’osso del collo nello stesso punto. Morin stava molto attento che non dovesse succedere un’altra volta, già era stato difficile spiegare tutto al capitano delle guardie la seconda volta, una terza sarebbe stato quasi impossibile.
Quella sera di fine autunno, la taverna era piena di avventori e viaggiatori che approfittavano delle strade ancora sgombre di neve per recarsi con i mezzi più svariati alle loro case o città di origine.
Una sera, mentre versava l’ennesima birra nel bicchiere agganciato sotto il tavolo, vide che nella locanda entrò una di quelle creature che chiamano uomini e che trovi di tanto in tanto a vagare nei boschi alla ricerca di onesti Rigrim (che ovviamente loro chiamavano orchi), persi o in cerca di cibo per la sera. La prima reazione di Morin fu di prendere la balestra sotto il bancone e cacciare via quello schifo, poi pensando alle porte della città che erano chiuse e al fatto che lo straniero avrebbe dovuto rimanere a dormire lì da lui, rimase fedele al motto che si era coniato da solo “solo l’oro importa, il conio è arte” e lo lasciò in pace rintanato in un angolo.
Ogni tanto dava un occhio per vedere se qualcosa era cambiato o se lo straniero creava disagio ai suoi clienti abituali. Non lo vide mai agitarsi, nemmeno quando due giovani in cerca di menare le mani, agitarono i loro pugnali rituali di fronte alla sua faccia, senza andare oltre avendo probabilmente visto, come lui, che il fodero che conteneva l’arma a lama corta era stato spostato con noncuranza in maniera che si potesse estrarre moto facilmente
Il problema era che la sua presenza da solo scoraggiava molti clienti ad entrare e altrettanti ad uscire precipitosamente. A notte inoltrata quando fu ora di chiudere, Morin decise che non voleva un essere del genere sotto il suo tetto, capace che si ritrovava sgozzato lui e tutta la famiglia prima di mattina.
Si avvicinò al ceffo
-Che si fa? Devo prendere la mazza o te ne vai da solo?-
L’essere esplose in una risata fragorosa, sputando la birra che stava bevendo.
-Locandiere, chi ti ha insegnato a parlare così? Se io volessi affittare una camera?-
-Già stasera mi hai fatto scappare i clienti, mi vuoi sul lastrico? Via! Fuori che non ho tempo da perdere-
Dal modo di alzarsi, da come lo aveva guardato, facendogli rallentare la frase alla fine, Morin intuì che si trattava di uno abituato alle armi, un guerriero, un militare forse. Si alzò lentamente e si avviò verso la porta. Senza girarsi a voce abbastanza bassa disse in maniera che solo il locandiere lo sentisse
-Porta fuori la tua famiglia quando è mattina presto o non vedranno la sera-
Morin che lo osservava uscire, rimase talmente interdetto da quella frase che non riuscì nemmeno a correre dietro allo straniero cercando di fermarlo.
La mattina dopo, quando si svegliò con una certa inquietudine, uscì dietro per fare i propri bisogni e con sua sorpresa riuscì a pisciarsi sui piedi e la cosa lo lasciò talmente esterrefatto che corse fuori nella strada principale urlando e svegliando ospiti e vicini di casa che osservavano con un misto di rabbia e inquietudine Morin, completamente pazzo, che mostrava i piedi bagnati a chiunque.
Cercarono di fermarlo e lui, senza badare entrò nella locanda, prese una birra e la versò a terra, lasciando tutti con un palmo di naso.
Decise che sarebbe andato nella piazza principale a festeggiare ma appena fuori dalla locanda si trovò di fronte ad un muro di cuoio rosso e verde, le uniformi a scaglie delle guardie cittadine, e davanti a tutte quello stronzo psicopatico del capitano Rudimor.
Tra loro non correva buon sangue, anzi direi che rischiava di correre anche troppo sangue da quella volta in cui Rudimor, ubriaco fradicio passò la notte appeso a testa in giù nella sala principale della locanda di Morin. Morin non sapeva cosa fosse veramente successo, ma quei pochi che erano rimasti ad assistere alla lite fra loro due, affermavano che dopo un po’ il locandiere aveva cominciato a urlare frasi incomprensibili in un idioma mai sentito prima. Poi nessuno sapeva più dire nulla se non che Rudimor, aveva passato la notte appeso e loro erano rientrati, non sapevano come, alle proprie case.
-Il bianco dov’è?-
-Cazzo dici Rudimor?-
-Capitano per te! Il bianco, quello che mi hanno detto era qui ieri sera, dove è andato?-
-Perchè lo chiedi a me. Capitano?-
-Non lo hai lasciato andare via, vero?-
A Morin era venuta voglia nuovamente di mettersi ad urlare contro quel tronfio, bastardo, figlio di scrofa.
-Senti, anche se sei mio fratello, non puoi pretendere che lo fermassi, mi stava facendo andare via i clienti-
-Morin, lo hai mandato via tu? Dove l’hai nascosto? Per le porte non è passato nessuno-
Rudimor aveva la faccia rossa per la rabbia che covava dentro, voleva dare una lezione a quel fratello più grande che lo aveva umiliato in pubblico dopo avergli portato via tutti i beni di suo padre.
Morin era teso e pronto all’attacco, ma aveva 12 ragioni in cuoio Verderosso dietro di lui perché rimanesse fermo.
Per qualche secondo la situazione parve in stallo, poi Rudimor, abbassò gli occhi
-Cazzo, Morin, tira dentro l’uncino dalle brache almeno, non vedi che stai dando spettacolo?-
Si era radunata una folla dietro e attorno a loro che adesso stava ridendo e Morin si sentiva morire per quello.
A poco a poco la risata si tramutò in un rantolo strano e come di allarme, voci, sempre più vicine e sempre più impaurite gridavano.
-I draghi! I draghi!-
Lazarus – 2016