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L’ Istituto di igiene mentale San Pancrazio per la cura delle depressioni e dei disturbi post-traumatici della personalità sorgeva su un promontorio in riva al mare, che dolcemente digradava verso una graziosa caletta privata protetta dalla scogliera. Il grande edificio era circondato da un fitto bosco, cosicché anche nelle giornate più calde, quando il mare era piatto come una tavola e non soffiava nemmeno una misera brezza, i pazienti potevano trovare sollievo all’ombra degli antichi alberi. Lontano dal resto dell’umanità, era un vero paradiso per poveri alienati in fuga.
Il giorno delle visite era il giovedì, quando quei pochi che si ostinavano a mantenere una parvenza di legame con i propri parenti ricoverati si arrampicavano lungo il viale attraverso il parco. Non molti speravano davvero di essere riconosciuti dal matto di casa, la maggior parte di loro era lì per garantirsi che i beni di famiglia prendessero la giusta direzione al momento opportuno, e per chi aveva la fortuna di poter incaricare un avvocato pure questa diveniva una preoccupazione inutile, riducendo così ulteriormente i contatti con il parente al regolare pagamento della parcella per il ricovero e ad un paio di cartoline di auguri all’anno, a Natale e al compleanno. E queste ultime solo se il paziente manifestava qualche sprazzo di memoria di tanto in tanto.
Fra tutti i visitatori spiccava per la sua tenace costanza un omino insignificante, una persona semplice, né giovane né vecchia, dall’aspetto pulito e onesto. La sensazione iniziale di banalità che trasmetteva veniva riscaldata da uno sguardo buono e gentile. Da quindici anni si recava ogni giovedì all’Istituto a trovare una donna ormai dimenticata da tutti: dalla sua famiglia che si ricordava della povera matta solo quando c’era da saldare il conto della detenzione, ma prima di tutto dimenticata da se stessa.
Solo l’omino le era rimasto fedele. Eppure non erano sposati, né erano mai stati fidanzati. Certo, quando la donna non aveva ancora perso la ragione avevano avuto, è vero, una breve frequentazione, ma niente di più. Almeno agli occhi del mondo. Perché quei primi pochi incontri, carichi di aspettative, che tracimavano di emozioni acerbe e ancora informi, erano bastati ad accendere nel cuore di lui un amore cieco e profondo che ancora lo teneva legato a lei. Il personale dell’ospedale ormai lo conosceva bene, tutti lo salutavano sempre con un sorriso e una parola gentile, anche se alle sue spalle costruivano strane storie fantasiose per spiegare le ragioni della sua umile perseveranza. Lo compativano, ma con un velo di disprezzo per aver sprecato la sua vita dedicandosi con costanza ad una donna che si scordava di lui da una settimana all’altra.
«Mi dispiace» disse l’infermiera in portineria, «questa settimana è stata difficile: abbiamo dovuto aumentare le dosi di farmaci, e ora non è completamente in sé. Abbiamo anche dovuto isolarla.»
“Isolarla” era uno dei soliti eufemismi tipici di luoghi come quello. La portavano in quella che lei chiamava “la stanza del nulla”, e quando lei riusciva a parlargliene le parole e le frasi le uscivano di bocca come cocci aguzzi di vetri rotti, facendogli capire che ne era terrorizzata.
«Posso vederla?»
L’infermiera gli fece cenno di passare. L’omino raggiunse la stanza per l’isolamento. Non poteva entrare ma c’era un tassello di vetro sulla porta, attraverso il quale poteva guardare all’interno. Al centro della stanza, bianca e asettica, priva di finestre e illuminata da fredde luci al neon, stava un semplice lettino. Non c’erano altri elementi d’arredo. Il letto era vuoto, a lei non serviva mai. A terra era stesa la sua coperta rossa e al centro stava seduta lei, intenta a giocare con alcune vecchie bambole come una bimba. Una bimba di circa 40 anni. Dondolava leggermente su se stessa cercando di allontanare qualcosa che la infastidiva. Cullava con eccessiva energia le bambole, alle quali una mano rozza aveva tagliato cortissimi i capelli e sigillato con il nastro isolante gli occhi e le bocche. Lei gli aveva detto che, quando si calmava e tornava in sé, di quei momenti ricordava solo un ronzio che riempiva l’aria, impedendole di sentire se stessa e i suoi pensieri e quasi anche di respirare.
A vederla così l’omino sentiva un sasso cadergli nello stomaco. Quanto avrebbe voluto infrangere tutti i regolamenti, entrare nella stanza, stringerla a sé e proteggerla da ciò che aveva dentro, farle capire che lui, semplicemente, era lì con lei. Non era uno psichiatra ma sentiva che, nonostante tutte le terapie raffinate che avevano provato quando ancora speravano di poterla guarire, forse la vera cura non era niente più di quello. Se avesse provato a proporlo a quei bianchi luminari sapeva che avrebbero scosso la testa con un sorriso di condiscendenza. E se avesse insistito si sarebbero pure offesi. Avrebbe potuto provarci senza dire loro nulla ma sicuramente l’avrebbero scoperto, impedendogli di tornare a trovarla. Avrebbe dovuto opporsi e lottare per lei, lottare per loro, sì, così l’avrebbero preso per pazzo e allora sarebbe finito tutto. O forse no.
Sapeva cosa doveva fare. Attraversò correndo il lungo corridoio che portava all’ampio atrio d’ingresso. Al centro della sala si guardò intorno, smarrito e disorientato, con un urlo strozzato si lanciò attraverso le grandi porte finestre che s’aprivano sul terrazzo affacciato sul mare e le mandò in frantumi. Riuscirono a prenderlo appena prima che scavalcasse la balaustra e si buttasse fra le onde. Chi lo aveva soccorso lo aveva sentito parlare, delirante, di sassi che lo trascinavano a fondo e di bambini da salvare. Ma non era importante che capissero di cosa stava parlando, per l’omino la cosa importante era che finalmente sarebbe potuto stare davvero insieme a colei che amava.
Alice G-FK – 2017