E l’ultimo tuo ballo, sta scritto, è per me (pt1 + pt2)

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E L’ULTIMO TUO BALLO, STA SCRITTO, È PER ME (pt. 1)

Nota: ”FIGLI DI ORWELL”: così noi de LaLupAlata abbiamo deciso di categorizzare quei lavori (dei quali questo medesimo è il primo ad esser pubblicato: il “PRIMO FIGLIO DI ORWELL”), che Manù il G.V. avrebbe riscritto e modellato sulla base di annotazioni e bozze sviluppate durante i corsi di scrittura creativa ad Accademia Orwell seguiti in gioventù.

Sentiva nelle sue orecchie come il rompersi continuo di milioni di collane di perle. Osservava i ciottoli della spiaggia di sotto, mestamene rimestati da un mare annoiato che li ricombinava eternamente. Anche oggi sedeva in fronte a quell’enorme e vecchia finestra.

Passò così alcune ore, poi un fremito improvviso lo scosse, lo alzò che pareva un povero pesce sfinito che si rassegna ad esser tirato fuori dall’acqua da un’invisibile lenza. Poi ecco incominciò ad esaminare le alte pile di libri che disseminavano l’intero pavimento dello stanzone: burattino tra i termitai.

Ne prese uno arrivato via posta qualche giorno prima, strappò con fatica il cellophane e aprì il frontespizio.

Lesse il titolo. Era un libro italiano. Ora ricordava. Nel blog dove ne aveva letto a proposito lo presentavano come un nuovo capolavoro, già l’avevano trasposto al cinema con un risultato che si diceva non fosse così male.

Lentamente si volse e tornò alla finestra, il suo corpo era vistosamente sottopeso ed egli sentiva le gambe che un po’ gli cedevano.

Con attenzione si rimise sulla sedia e iniziò a leggere:

Questo è il mio ultimo scritto, prego che ti possa piacere.

Vedi, per molti anni sono stato solo davanti al mare, a sentire le strida dei

gabbiani, anche se sapevo che ciò non mi apparteneva. Non era ciò che volevo fare,

non più ormai: dentro, sempre, conservavo la rabbia.

Ora, finalmente, nessuno dei numerosi incubi che tempo addietro m’infestavano possono più trattenerla; sono stati consumati, ridotti in brani dalle urla dei gabbiani. Quindi ecco…”

Il vecchio alzò gli occhi sul mare di sotto, immenso, con spiagge come lame. Le scrutò in lungo e in largo. Nulla, per ora, ma sapeva che il dolore sarebbe tornato, bastava aspettarlo.

Questa volta però si era deciso a combatterlo, era pronto a sfruttare tutta la furia di cui era capace, quella che poteva rimanergli. Non gli avrebbe lasciato impossessarsi di lui così facilmente.

“…quindi ecco che agisco! Con una fretta improvvisa. È come se fosse stato l’influsso di una droga (sintetizzatasi collateralmente durante tutta questa mia segregata solitudo) a bruciarmi via la vita, e in modo considerevole, riducendomi, io sento, a nientemeno che un mozzicone inzaccherato, dimenticato dal mondo; ma forse è proprio per questo che ecco infine è qui la Rabbia, forte com’è la vita, che viene ad opporsi e soverchiare gl’incubi di paura, le crisi di tedio. Io ora sono vecchio e sconvolgerò i naturali procedimenti. Non voglio smorzarmi piano, o che l’erba mi acquieti per della terra che, ammantatomi, non mi gravi, e le mie palpebre non si socchiuderanno mitemente.

Da vecchio mi sono capito: io esploderò, voglio esplodere con un ruggito! Fino ad oltre quel punto limite che precede l’ignoto i miei occhi imperverseranno spalancati, affissi sul mondo. È tempo di uscire dal faro! Licenziare per sempre questa torre di abbandono e venire da te, e mi mostrerò per quel che sono diventato.”

Così, come il vecchio del libro che viaggiò attraverso terribili paesi di ghiaccio e vasti reami divenuti sabbia, avvertendo costantemente il veloce scadere del proprio fato, imponendosi la vita, sempre più affannosa, pur di riavere lei un’ultima volta: la sua Rosa, e riunirle i capelli, sfiorarle le gote sgonfie ormai e riaccordare i propri occhi alla sua anima; allo stesso modo il vecchio del mondo reale schiuse il proprio eremo e, spalancando la porta quasi a scardinarla, si fiondò come il vento sulla strada, diretto alla sua rosa.

Ripudiò quell’erosa scogliera esposta ai tormenti continui di sibilanti spettri, a strapiombo sulle amare delusioni rivelatesi come l’unico frutto dei suoi sogni sfioriti. Ripudiò quelle cataste di libri che non gli erano mai appartenuti, non era mai riuscito a fare davvero suoi, non aveva mai apprezzato veramente per via della rivalità venefica che gli instillavano e lo schiacciava (portò con sé, doveva farlo, soltanto quel libro che aveva appena iniziato). E infine addio al faro e a quella grande, inutile finestra e a quarant’anni della sua vita…

Con gli anni che invece gli rimanevano – oppure coi mesi, coi giorni, coi minuti? Ottantadue primavere ti portano ad avere continuamente, dai recessi della mente, l’eco del dubbio mortifero a risuonare di sottofondo ad ogni tua azione, pure quelle che fai mentre tenti di esorcizzarlo – in questo stato lui giunse a lei (camminando sulle orme del vecchio del libro), varcò quel cancello divelto dall’edera e, una volta trovata, pose un consunto foglio ingiallito sulla sua pietra.

Disse: «Ciao. Ti ricordi di questo scritto?», e iniziò, così, a recitare a memoria:

Quell’oggi, ho incontrato una Persona,

Bellissima, fisicamente; e m’è bastato: mi ha stregato.

Descrivere, la bellezza che ha, m’è sì faticoso:

Ogni pensiero da incarnare in inscritto, è una pietra: si produce un guscio di sali

e calcare, aleggiando su di sé in questa mente, inspessisce e diventa un

grosso sasso bianco e liscio; sostituisce il mio cervello e mi cementa la testa,

la bocca, mi fa pesante e tristo. Perché l’ho infissa dentro me e so,

Mai, farò parte del suo mondo – non ho la minima voglia di far parte del suo mondo.

Non voglio fare star male questa persona non dev’essere l’ennesima a storcermi il viso, davanti a me, per avversione. So, ormai, che siamo tutti perfetti, Ma solo appena ci conosciamo, invece, poi…

Mi fa pazzo non so mai cosa Dire Fare Pensare Guardare Toccare Prendere Camminare Bere Mangiare Comportare Essere.

E L’ULTIMO TUO BALLO, STA SCRITTO, È PER ME (pt. 2)

Quando non c’è, questa Persona, mi manca, come il Senso Del Mondo, se si ricerca; Come ossigeno: mi deprimo. Quando c’è, Sento acqua nei polmoni: sbraccio verso la superficie sbuco fuori e le parole che le rigetto addosso sono inutili, inopportune, idiote.

Questo mi fa nauseare: il farla nauseare di me.

Tuttavia, È dolce Come miele.

Il suo corpo: È Arte. Stava lì, occhi bassi, e mi guardava, quel volto; ma ne ho solo una memoria indefinita… Tanto era elegante, e sofisticato… Ora, potrei provare a descriverla!

Ogni dettaglio minuzioso, ogni ombra e pagliuzza di luce sulla Persona… Ma, La sua forma alle ciance è inafferrabile, il suo viso appartiene alla pagina bianca.

Un suo buffetto sulla spalla scaccia via questi pensieri, e sono incredibilmente felice che la Persona Mi abbia cercato. Un sorriso di saluto, e la sua Voce mi scorre ancora come un fiume d’oro nelle vene, a ripensarci…

Delle lacrime calde scesero a bagnare le guance del vecchio tra i singhiozzi. «Ricordi che te lo feci trovare sopra il tavolo in cucina quella mattina. Non so, e mai saprò veramente, perché accettai di farlo così. Sul momento non riflettei sulla brutalità con la quale ti dicevo addio. Volevo solamente fare in modo di trasformare anche quell’atto, soprattutto quell’atto estremo (e forse proprio questa sua gravità mi faceva ancor più determinato a compierlo esattamente come lo voleva il mio estro) in qualcosa di artistico. Straniante e spettacolare come le derive d’arte che ho sempre adorato. Come fosse una scena chiave di un film che nella mia, ma soprattutto nella tua memoria, sarebbe divenuta cult.

Non sono mai riuscito a distinguere la vita reale dal cinema, dal sogno, dalla fantasia, dall’illusione.

E andò a finire proprio come avevo sperato! Mi dicesti, turbata dalle emozioni: “È una delle cose più potenti che abbia mai letto”, “Sì” ti dissi: “Posso riuscire a fare questo, e voglio perfezionarmi ancora, e poi superarmi. Ma non l’ho scritto pensandolo per te” ti dissi…

C’era un’altra, quell’Altra: con una primissima, rapida vista m’aveva eretto ogni pensiero di e per Lei ad aggiogatore del mio cuore, m’aveva spappolato il petto, gettato in baratri di tormento dal momento in cui l’avevo incontrata.

E nel medesimo periodo anche te avevo conosciuto; e dato che Lei non mi voleva, a te m’avvicinai, che eri così infinitamente dolce e mi facevi stare finalmente bene, dopo tanto struggermi.

Ma la mia manìa non scemava, e quello che sentivo di poter scrivere nel pensare a Lei, sognarLa, possederLa, era di una tale intensità che non volevo nient’altro che potesse appagarmi similmente. Il mio cuore, la mia mente avevano trovato la loro musa? La mia Beatrice?

Realizzai che avrei potuto spingermi addirittura oltre: volevo arrivare, e, Dio, superare, Dante. Dante! La possibilità di farlo l’avevo: riuscire in ciò che perfino il Sommo Poeta aveva fallito perché io, quello che provavo per la mia musa, gliel’avrei manifestato materialmente. E tutto ciò chissà a che livelli avrebbe innalzato la mia estrosa sensibilità!

Traevo la mia arte da Essa. Ne era l’origine.

Tu, e il mondo felice e meraviglioso che c’eravamo costruiti, non mi davate niente di ciò. Era mortalmente bello e, in verità, mi aveva intorpidito. La mia forza di sognatore si era assopita. Io… Dovevo tornare alla mia fonte.»

Quando riuscì infine ad avere la sua ‘musa’, dopo il terribile dolore che aveva causato consacrò la sua vita e la sua poesia a Lei. Lasciò il suo lavoro d’insegnante, andarono a vivere alla casa del faro, dove “anche l’ambiente avrebbe aiutato la poesia a crescere”.

Ma molto presto, dopo che del proprio intelletto La ebbe resa prima membra, gli crollò sotto ai piedi ogni cosa, ogni cosa. Ora, trovata la sua sorgente, all’origine di un’ardua e sofferta risalita, non sapeva più che fare?

Poteva crogiolarsi, godere per sempre di essa e della sua bellezza, ma sarebbe ricaduto in un errore identico a quello da cui era sfuggito. In situazioni maledettamente passive, mentre egli ricercava la dinamicità, un moto che avanza, che sempre diviene cose vive, voleva la ricerca: un viaggio come approfondimento nella sua arte che, s’era reso conto, non riusciva a far sbocciare se non nella tensione verso qualcosa, nella tensione verso una mancanza. E ora Lei rimaneva lì, così diafana davanti a lui ma gelida, glaciale, ormai derubata del suo mistero.

Non gli restavano più lacrime da sfogare nella quiete del cimitero.

Era stato come un rametto da innesto: staccato dal ceppo primigenio (come lo sono tutti i ramettini), convinto che avrebbe dato i propri frutti soltanto se innestato su un albero che rispecchiava appieno le sue fisime. Non comprese assolutamente che l’albero sul quale il caso o il suo cuore, che aveva sempre cercato di controllare, l’avevano già dapprima inserito era tutto ciò di cui avrebbe mai avuto bisogno e gli avrebbe dato e si sarebbe dato appieno a lui, con tutto quello che aveva, per farlo fruttare.

Il vecchio della realtà s’inginocchiò a terra, proprio come faceva il vecchio del libro, e il primo strinse quest’ultimo e lo pose sulla tomba, sopra al vecchio foglio ingiallito.

«La mia vita è stata un grande errore. E mi sembrava tutto definitivamente perduto, ma questo libro…» si alzò un forte vento che gli scarmigliò i radi capelli e gli sollevò il bavero della giacca. Lui si gettò in avanti a stringersi a lei, nell’abbraccio della lapide. Lungo il viso gli s’aprì come un sorriso di una riconoscenza infinita.

«Mi hai salvato.»

Il vento spirando iniziò a sfogliare il libro. “La Radice Importante”, di Silvia Falpi.

Pagina dopo pagina, mentre l’abbraccio si prolunga.

La dolcezza si restaura.

Il libro finì e si chiuse. L’abbraccio dura ancora: quello di un vecchio scemo, alla tomba di Silvia Falpi.

Ricorda chi ti riporterà in casa, quali braccia vorrai intorno a te, quindi dolcezza, l’ultimo tuo ballo è per me.

Manù il G.V.

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