
Ci sono boschi che suonano più di altri.
“Mai più!”
“’Sti cazzo di cazzo di amici!”
“Cazzo cazzo cazzo!”
“Merda, anche male alla caviglia, e poi io odio la natura, amo lo smog, la nicotina.”
“Voglio fumare.”
“Adesso mi fermo e vadano pure avanti con la loro passeggiata in ‘sto cazzo di bosco, io mi accendo una sigaretta e se prende fuoco, meglio!”
Lasciò che gli altri si allontanassero lungo il sentiero, perdendoli di vista.
Per la prima volta nella sua vita sentì nettamente il rumore che fa l’accendino quando scatta. Quasi prese paura.
La sigaretta procedeva a consumarsi e il fumo che entrava nei polmoni lo faceva sentire beato.
Finalmente rilassato cominciò a sentire attorno a sè i rumori, come una presenza concreta.
Si incamminò lungo le tracce che portavano sempre più nel fitto del bosco. Avanzò per alcune centinaia di metri a passo spedito ma gli sembrava di non riuscire a raggiungerli.
“Sta a vedere che quei cretini non si sono accorti che sono rimasto indietro.”
Una leggera inquietudine si impossessò di lui: oltre a non raggiungere gli amici, la caviglia gli faceva sempre più male.
Il piede gli cedette in un punto in cui il sentiero molto sconnesso era fiancheggiato da una scarpata che finiva in un sottobosco fitto e abbandonato a se stesso.
Nel tempo in cui cadeva riuscì solo a pensare: “cazzo stai a vedere che riesco a battere la testa contro un tronco”.
Buio.
Freddo e dolore dappertutto.
Umidità e grumi di terra che gli ostruivano la bocca. Il sapore marcio delle foglie e della terra bagnata.
Odori, odori strani senza nessuna corrispondenza se non una memoria atavica.
Muschio, marcio e in sottofondo acqua. Può odorare l’acqua?
Cominciò a stirare le membra lentamente, attento ai segnali che arrivavano dal proprio essere.
Alzò la faccia che era affondata a metà in un mucchio di foglie e cominciò a muovere le estremità.
Prima allungò le braccia e le mani e sembrava che, dolore a parte, tutto funzionasse.
Le gambe e la caviglia anche.
Provò a sollevarsi, gli faceva male dove ricordava di aver sbattuto la testa, pulsava forte in un punto preciso ma non ebbe il coraggio di controllare quanto fosse esteso l’ematoma. Evidentemente c’era ed era sufficiente saperlo.
Era buio, non vedeva nulla, cercò il cellulare per chiamare aiuto e farsi luce, ma lo trovò inesorabilmente scarico. Provò ad armeggiare con la batteria, ma niente. Andato. “E da quanto tempo sono qui, allora? Quando sono caduto avrà avuto ancora mezza carica!” Per fortuna ricordò che in tasca aveva l’accendino.
Lo accese per capire, lungo la pendenza che sentiva sotto i suoi piedi, come tornare sul sentiero. Alla luce della fiammella si accorse di essere immerso in una fitta nebbia, intravide la scarpata lungo cui era scivolato, troppo ripida e intricata di sottobosco per poterla risalire. Un dubbio si affacciò: “Risalire è impossibile, rimango fermo in attesa dei soccorsi o scendo verso il fondovalle? Non sanno dove sono caduto, potrebbero non trovarmi mai, meglio scendere, prima o poi troverò tracce di vita, magari anche la pianura”.
Si avviò verso valle, facendosi luce ogni tanto con l’accendino, ma anziché diradarsi gli alberi sembravano infittirsi sempre più, oscure presenze indifferenti alla sua paura, che ora si faceva sentire in maniera estremamente concreta.
Si sentiva stranamente calmo e vigile, i sensi all’erta tesi all’ascolto del lieve palpitare del bosco. All’improvviso anche l’accendino finì.
Lasciò che gli occhi si abituassero all’oscurità, fino a quando iniziò a percepire nella nebbia un riverbero che gli permise di orientarsi e capire dove metteva i piedi. Continuò a camminare seguendo la pendenza. Perse completamente il senso del tempo tanto che non comprese più da quanto durava quella marcia, probabilmente da ore.
Esausto, si lasciò cadere ai piedi di un albero. Sollevò lo sguardo e per la prima volta vide le stelle sopra di se’. Capì di essere in una radura. Forse era la stanchezza, il fatto di aver camminato tanto o di non capire più niente, per la prima volta, però, si sentiva immerso in una calma irreale, e percepiva davvero se stesso e il tempo e lo spazio attorno a sé. Chiuse gli occhi e appoggiò la testa all’albero.
Pace.
Percepì un suono sordo che gli riverberava lungo le ossa. Era un pulsare ritmico, una musica profonda che era anche coscienza del suo corpo. Sollevò la testa dal tronco e si protese nell’aria notturna per comprendere da quale punto del bosco potesse arrivare il suono, ma improvvisamente si interruppe. Si tese completamente all’ascolto ma il ritmo misterioso era scomparso nel nulla, si sentivano solo i normali fruscii delle foglie mosse dal vento. Appoggiò nuovamente il capo all’albero e in quello stesso momento il suono riprese con la stessa intensità di prima.
Premette l’orecchio al tronco e si accorse che la pulsazione si sentiva meglio. Sollevò di nuovo la testa e il suono si interruppe di nuovo. La riappoggiò, ed eccolo come prima. Riprovò due o tre volte finché finalmente ne fu certo: il suono proveniva dall’albero stesso. Si mise in ascolto. Gli sembrava di sentire come un battere lento, allungato all’infinito, l’eco delle ere arboree che ci hanno preceduti e che ancora risuonavano dentro l’albero.
Nel momento stesso in cui elaborò la scoperta si rese conto di quanto questa fosse surreale e fantastica. Non poteva essere vero, non era scientifico, non era razionale. Eppure, perso nella notte in mezzo alla natura assoluta, una parte di lui, una parte che da tempo giaceva inascoltata nel profondo del suo essere, gli stava dicendo che sì, era tutto molto strano, ma nulla vietava che fosse vero.
“Che alberi sono questi che riverberano?”
Gli venne in mente la musica.
Alberi musicali, da dove maestri tagliatori ricavavano strumenti leggendari.
Qualcosa di concreto a cui aggrapparsi ed uscire da questo delirio che probabilmente la botta alla testa gli aveva provocato.
Sicuramente questi tronchi avranno legni diversi da altri, fatti per risuonare, per creare casse armoniche ed amplificare le vibrazioni.
La sua mente si aggrappava con forza a questo pensiero per non impazzire, per non cedere alla tentazione di credere all’assurdo.
Di nuovo non seppe resistere.
Si avvicinò al tronco vicino e appoggiò l’orecchio. Ecco di nuovo il suono, anche se in una tonalità più profonda, come se questo provenisse da un’entità diversa.
Certamente non si trattava di una semplice riverberazione, era qualcosa di diverso, quanto non avrebbe saputo dirlo.
Si rimise in ascolto, lentamente imparò come farlo, con quali parti del corpo percepiva meglio le vibrazioni, come poteva renderle quasi intelleggibili, appoggiando la fronte o la mandibola, lo sterno per le note basse e il lato faccia per quelle alte.
Sentì l’impulso di aggrapparsi e percepire con l’intero suo essere ciò che aveva da dire a lui quel mondo alieno.
A poco a poco riuscì a capire. E uscirono suoni che poteva interpretare.
Un rombo continuo, zoccoli di cavalli che calpestavano il terreno, frantumando tutto ciò che finiva sotto le loro zampe, strida graffianti, come le unghie che scorrono sulla lavagna e suoni incredibilmente armoniosi ed infiniti, come se dalla terra uscissero nuove note rimaste nascoste da secoli.
Una strana sinfonia che lo affascinava ed inquietava contemporaneamente.
Allontanatosi dal tronco rimase immobile, il respiro gli mancava e si lasciò cadere, ormai quasi senza vestiti, a terra in mezzo alle foglie. Non aveva paura ma sentiva il suo corpo e la sua mente che si agitavano, ricreati ancora una volta da questo contatto nuovo e spaventosamente antico. Pensieroso, cercando un modo per mettere alla prova quel fenomeno irreale, per capire quanto invece fosse concreto picchiettò prima con un dito e poi con l’intero palmo. Il rombo ritmico si interruppe, dandogli una strana sensazione come di attesa. Poi riprese con uno schema semplice, ma non casuale.
Battè con le nocche ritmicamente sul fusto del secondo albero, in maniera sempre più complessa. E il tronco, ne era certo, gli rispose. Gli rispose con un suono morbido, nasale, un quartetto d’archi che spaziava dalle note più gravi alle più acute. All’inizio sembrò una risposta incerta, via via si fece sempre più decisa, fino a rimbombargli nella testa.
Si accorse che la foresta in quel punto non assomigliava a niente che lui avesse visto. Gli alberi erano diversissimi fra loro e sembrava non ce ne fossero due della stessa specie.
Capì che il contatto era fondamentale per comunicare.
Si avvicinò a quello che reputava essere una enorme Quercia e abbracciò il tronco con quella corteccia così corrugata. Si tolse tutti i vestiti quasi per poter assorbire l’essenza delle vibrazioni. Sentiva percussioni antiche risuonare da antiche profondità, divinità ctonie che ballano la danse macabre.
Pensando a quello che sentiva, la cosa più vicina che gli veniva in mente era la voce umana. Il rombare costante, i tempi di risposta, innegabilmente diversi da albero ad albero, conferivano ad ognuno di essi un timbro unico, una voce unica e personale che ne evidenzia le caratteristiche. Imparando ad ascoltarli, forse avrebbe potuto capire, dal loro suono, se erano alberi vecchi o giovani, maschili o femminili, e magari anche la loro specie.
Non poteva smettere proprio ora in quella luce irreale che cambiava di continuo, la notte sembrava il luogo ideale per continuare, per concentrarsi su niente altro che le vibrazioni.
Il Castagno gli rispose con un gorgoglio continuo, come la vita in fermento. Un ribollire di pentole sul fuoco per sfamare il mondo intero.
Il Frassino cantava usando solo note alte, pure, perfette e rarefatte come l’aria. Gli veniva quasi voglia di arrampicarsi sull’albero per seguirlo verso il cielo e vedere dove andavano a finire.
E cosa aveva da raccontargli un Corbezzolo, con una voce di miele colante, che avvolgeva e inebriava. Morbide assonanze zuccherine, sinfonie di dolci essenze.
Ma lo sorprese l’Olmo, possente e deciso come un assolo di chitarra elettrica suonato sulle note medio basse per finire con bending laceranti sulla parte alta dell’ottava.
Il piccolo Corniolo, così duro, lo percepì con il naso e con la bocca, le sue note aspre, quasi risentite da tutte quelle curve del fusto, gli facevano vibrare i denti e non sapeva se quel rumore d’ossa che battevano era lui, il piccolo albero.
I graffi che aveva lungo il corpo non lo disturbavano da quell’esperienza mistica e che coinvolgeva tutto il suo essere.
L’albero più grande, con una corteccia particolarmente liscia, lo lasciò in uno stato alterato di percezione talmente forte che in seguito trovò molte assonanze con i racconti di chi aveva provato l’LSD o il peyote.
Non voleva lasciare andare quel tronco, quell’entità così forte e meravigliosa.
Era riluttante a tornare ad uno stato che fosse al di sopra del livello base delle emozioni della mente. Ricacciava indietro qualsiasi pensiero cosciente per lasciarsi guidare dal solo sistema limbico.
A poco a poco però uscì da quella sorta di torpore e la mente formulò pensieri che non erano più solo emozioni.
Gli alberi erano vivi in una maniera che non riteneva possibile. Erano individui unici come non ne erano mai esistiti, e mai più ne ne sarebbero esistiti nella storia del tempo, allo stesso modo di uomini e animali.
Una scoperta così grande e terribile avrebbe dovuto spaventarlo, e invece l’euforia gli fece dimenticare il dolore e la solitudine, quasi a guarirlo, in quella notte nel bosco, di tutti i suoi sedimenti accumulati impercettibilmente in anni e anni passati a guardarsi intorno smarrito, perso in una vita senza punti di riferimento.
Se solo fosse riuscito a decifrare il linguaggio di cui questi alberi erano dotati, e arrivare a comunicare con loro. Quante cose avrebbero potuto raccontarci di loro, di tutte le creature a loro legate, di noi stessi e della nostra Terra, questi esseri vivi e antichi, in collegamento diretto con le profondità più oscure e inesplorate, in perenne comunicazione fra loro, grazie alle loro radici che si intersecavano, formando un fitto reticolato che univa le parti più lontane del mondo.
Cercò in tutti i modi di trovare un riferimento comune da cui prendere le prime lettere per comporre parole e poi intere frasi. Poteva toccarli e farsi toccare dagli alberi, ottenere una reazione, suonare assieme a loro, ma quale esperienza comune avrebbe potuto aiutarlo a superare le barriere del linguaggio?
Tutta l’estasi, la gioia e l’orgoglio che stava provando per qualcosa che non comprendeva appieno ma sapeva essere grande si sarebbe ridotto a questo? Capire che due mondi completamente alieni l’uno all’altro convivevano da millenni, a volte anche in maniera drammatica, senza poter fare esperienza reciproca, senza conoscersi e capirsi, rimanendo quindi estranei?
Mondi paralleli, destinati a non comunicare se non in un remoto futuro?
Aveva paura di ciò che avrebbe voluto dire per alberi, piante, fiori, incroci e selezioni questa scoperta.
Nonostante questo vagava ancora continuando ad ascoltare le reazioni e le risposte, convinto di aver compreso come non mai l’essenza stessa di quella che gli uomini chiamano foresta, bosco, macchia.
Continuò a camminare per un tempo che non avrebbe saputo dire, dimentico ormai della caduta, dei compagni, dei “cazzo!” gridati a piena voce. Non pensava nemmeno a chi probabilmente stava attendendo il suo ritorno (molto pochi a dire il vero, giusto sua madre e pochi altri amici).
Ogni tanto incontrava un tronco che non gli dava risposta e passava a quello successivo.
Mano a mano che procedeva notava che gli alberi che non rispondevano erano in quantità sempre maggiore, come se il bosco stesse cambiando.
Il cielo intanto stava schiarendo e lentamente si avvicinava l’alba. Gli alberi non rispondevano più. Si sedette e si guardò attorno. Per la prima volta in quella notte si sentì davvero solo. Nel momento in cui la luce arrivò comprese di aver oltrepassato una porta che si era chiusa inesorabilmente dietro di lui.
Era solo. Il senso di smarrimento si rimpossessò di lui, lasciandolo stordito, incapace di pensare e di decidere cosa fare.
Un rumore lo scosse, una macchina verso valle. Se poteva sentirla la strada non era molto lontana e ci poteva arrivare.
Stancamente, zoppicando e trattenendo il respiro per il dolore che da un po’ era ritornato a farsi sentire, ricominciò a camminare.
Una volta raggiunta la carreggiata non dovette aspettare molto prima di incrociare un’auto che lo soccorresse. Lo riportarono a casa, stanco, sporco e affamato. Nella sua testa però aveva in mente solo una cosa: raccontare a tutti della sua meravigliosa scoperta e organizzare un gruppo di studiosi per tornare nel bosco e cercare la radura degli alberi che cantano. Forse con gli strumenti adatti sarebbero riusciti davvero a comunicare con gli alberi, e chissà cosa avrebbero potuto scoprire. Quando però provava a raccontare quello che gli era successo nessuno gli credeva, lo prendevano per il vaneggiamento di un poveretto che aveva preso un colpo in testa e aveva vagato tutta la notte nella foresta, in stato confusionale e in preda alle allucinazioni. Eppure lui insisteva che quello che aveva vissuto era reale, e che doveva tornare nel bosco e trovare la radura. Inizialmente le persone intorno a lui cercarono di essere comprensive, di calmarlo, ma mano a mano che i giorni, le settimane e poi i mesi passavano, e lui insisteva che era tutto vero, iniziarono a stancarsi e a prendere tutta quella storia come una elaborata farsa per attirare le attenzioni. E così, un po’ alla volta, trovandosi più solo e smarrito di quanto fosse stato quella notte nel bosco, smise di raccontare questa storia e tornò a quella che tutti consideravano una vita normale.
Eppure, quando si trovava a camminare in un giardino, in un parco o in un bosco, e passava vicino ad un albero, a volte, attento a non farsi vedere, provava a bussare, sperando in una risposta. Ma mai più sentì un albero suonare.
Alice Gobbi FK / Paolo Costa – 2016