
La città si sviluppava intorno alla piazza centrale, il cuore pulsante dal quale si diramavano arterie che collegavano gli edifici; enormi cubi composti da una liscia pietra bianca uniforme, senza nessuna crepa o segno del tempo e su un lato una fessura larga poco più di un metro che li percorreva per tutta l’altezza. Dal loro interno si intravedeva una luce invisibile, un bagliore che sembrava nascondersi continuamente alla percezione di Viktor.
La città era deserta. I rumori del silenzio rimbalzavano sui muri di pietra nascondendo sussurri che si insinuavano nella sua mente come semi di realtà sconosciute. Qualcosa di vivo, di antico pensò mentre, percorrendo una via, sfiorava con le dita la superficie calda dei cubi. Non osava avvicinarsi alle fenditure, combattuto tra curiosità e paura; sentiva provenire dal loro interno qualcosa di diverso, di nuovo. Qualcosa che lo chiamava a sé.
Non sapeva da quanto tempo stesse vagando in quella città deserta, ma ormai le sue scorte stavano per finire. Non riusciva a ricordare come fosse arrivato in quel posto né il perché e anche il ricordo del luogo da dove proveniva diventava sempre più offuscato. Doveva andarsene, perso in quel bianco labirinto le cui vie erano tutte uguali e solo i cubi al loro interno sembravano essere diversi gli uni dagli altri. E lo chiamavano continuamente, invitandolo ad entrare.
La città lo chiamava, e alla fine Viktor accettò il suo invito. In quel momento, come se avesse percepito la sua decisione, l’interno di ogni cubo si illuminò, ognuno di una luce diversa cospargendo le strade di arcobaleni dagli infiniti colori e dipingendo arabeschi di luci sulle pareti delle strutture. Scelse un cubo da cui proveniva una calda luce azzurra ed avvicinandosi alla fenditura si ritrovò ammantato di quel bagliore denso che, dolcemente, lo accompagnò verso se stesso, all’interno di un mondo diverso.
Si risvegliò fissando l’azzurro e il blu di un cielo, metà giorno e metà notte, disteso sull’erba all’interno di un recinto largo abbastanza per poterci passeggiare, circondato da una sgangherata palizzata di legno bruciata dal sole. All’esterno un’esplosione di colori e luci, musica e balli, risate e rumori, figure senza volto in abiti variopinti, colossali tendoni colorati sulla cui cima svettavano alte bandiere dai disegni più improbabili, giocolieri con tre o quattro braccia si alternavano ad altri con tre o quattro teste dando sfoggio delle loro abilità, clown su trampoli alti decine di metri provavano inutilmente a far ridere le figure sottostanti urlando a squarciagola parole incomprensibili, inciampando di tanto in tanto nel terreno fangoso della via e cadendo sulle grandi tende che non sempre reggevano all’impatto, riversando una fiumana di abiti colorati all’esterno mentre le risate esplodevano sprezzanti. Un carrozzone con una gabbia di dimensioni mirabolanti era collocato vicino al recinto e al suo interno si trovava un uomo così grande che la gabbia lo conteneva a stento, costringendolo in un groviglio di membra compresse contro le sbarre. In lontananza si intravedeva un imponente giostra che girava sempre più veloce, sbalzando lontano le figure al suo interno. Lungo le vie di fango e paglia che si liberavano intricate tra i tendoni si potevano intravedere dei carretti con decine di gambe nude al posto delle ruote, lenti millepiedi che trasportavano montagne di cibo che nessuno poteva mangiare.
Viktor si era smarrito nell’osservare quello strano mondo, appoggiato alla staccionata e sporto verso quell’incredibile realtà. Si sentiva trascinato nella follia generale, voleva quel luogo dove tutto sembrava possibile.
Perso nei suoi pensieri non si accorse subito del piccolo essere, alto non più di dieci centimetri e anch’esso senza volto, vestito con una tutina di mille colori, una giacca di paillettes dorate e una tuba alta almeno quanto lui, avvicinarglisi camminando sulla staccionata. Appena gli fu a un metro gli rivolse un profondo inchino e, con una voce impossibile per quel corpicino così piccolo, urlò:
«Venite signore e signori, venite ad ammirare l’essere con un volto, unicità e individualità in una sola persona! Avvicinatevi e non abbiate paura! Ammiratelo, prima che anche lui diventi parte di noi!»
Le figure colorate iniziarono a scemare verso di lui, notandolo forse per la prima volta incuriosite dalla sua stranezza. Se ne stavano in piedi, ordinate in quel caos dilagante circondando il recinto e osservandolo cieche.
«Ed ora miei gentili spettatori, inizia lo spettacolo!»
Le figure abbatterono la staccionata e la calpestarono fino a stringersi attorno a Viktor. Incapace di reagire e smarrito tra quei mille colori, l’uomo venne preso e trascinato via da quella corrente colorata attraverso le vie fangose, fino all’interno di un minuscolo tendone grigio nascosto in quel caos colorato e, come se si fossero dimenticate di lui, le figure ritornarono alle loro attività.
Si ritrovò di fronte ad altri [Sestesso] sgraziati e contorti nelle loro forme; si voltò per andarsene ma si trovò circondato da quegli strani [Sestesso], specchi che contorcevano la sua immagine e che gli nascondevano l’uscita, se un’uscita ancora c’era. L’uomo iniziò a vagare in quel labirinto di riflessi distorti, perso in quei [Sestesso], fino a scorgere di fronte a sé la figura di una ragazza seduta a terra con la testa fra le mani.
«Va tutto bene?» la figura non rispose, persa nei [Sestesso].
«HEI! Va tutto bene?»
«Vattene, tu non sei reale» gli rispose.
«Cosa? Io sono reale!» la ragazza alzò la testa, e lo guardò. E’ bellissima pensò, ipnotizzato dal vuoto nei suoi occhi, anche se un qualcosa di quasi impercettibile disturbava quella visione.
«Se sei reale, io non lo vedo. Il tuo riflesso non c’è.» lui si guardò intorno ma era circondato da decine di [Sestesso]. Perplesso tornò a guardare la ragazza, e si accorse solo in quel momento che era lei a non specchiarsi.
«Ti sbagli» le disse «è il tuo riflesso a non esserci!»
«Tu non vedi il mio riflesso, e io non vedo il tuo. Come facciamo a sapere chi di noi è reale?» Stettero a guardarsi a lungo, in silenzio.
«Chi sei? Dove siamo?» disse Viktor. Era più un pensiero a voce alta che una domanda; ma lei gli rispose:
«In un labirinto di specchi, no?»
«Da quanto sei qui dentro?»
«Non lo so, il tempo in questo posto sembra non contare. E tu?» lui scosse la testa, in quel momento si rese conto di non avere idea di quanto tempo fosse passato.
«Mi fanno paura quelle figure senza faccia.» gli disse lei.
«Già, sono difficili da accettare. Tu hai capito chi sono?»
«Non proprio. Uno di loro mi ha detto che sono parte di una realtà più grande, uguali gli uni agli altri.»
«Questo non rende le idee più chiare.» La ragazza fece spallucce, in fondo non era un problema suo.
«Vorrei sapere perché ci hanno rinchiuso in un posto come questo.»
«Non lo so, ormai ho smesso da tempo di chiedermelo. I miei ricordi stanno lentamente svanendo, si stanno perdendo anche loro qui» in un labirinto di specchi pensò Viktor. Strano posto per rinchiudere delle persone, a meno che…
«Guardami con attenzione,» le disse «e rimani ferma» la ragazza lo guardò.
«Ora me ne rendo conto, il tuo viso sta sparendo!» Lei si girò di scatto a specchiarsi da vicino.
«Oh no,» disse «non è possibile!» la sua mano tremante sfiorava lentamente la pelle del suo volto, incredula di ciò che stava accarezzando.
«Sto diventando come loro» sussurrò. Passò qualche istante e disse:
«Sai, forse neppure me ne importa. Se questo è un modo per andarmene…»
«Come può non importartene? Se fosse questo quello che vogliono? E se dimenticandoci chi siamo diventassimo come loro?».
«E quindi?» Viktor la fissò a lungo mentre il volto di lei lentamente si dissolveva.
«Cazzo!» sbottò sferrando un pugno allo specchio mandandolo in frantumi, rivelandone un altro subito sotto. lo colpì ancora e ancora, ma un nuovo specchio era sempre lì. La mano martoriata dai tagli, gocciolava sangue sul mucchio di frammenti ai suoi piedi mentre la ragazza si alzò e si diresse verso di lui, raccolse un pezzo di specchio e se lo rigirò tra le mani.
«Sai, forse so come andarcene rimanendo noi stessi» gli disse. Viktor la osservò per un momento, ipnotizzato dal frammento di specchio nelle mani di lei che rimandava continui bagliori di [Sestesso].
«No, non così» le disse.
«Guardati intorno, vedi altre soluzioni? Io sto perdendo me stessa e prima o poi inizierai anche tu!»
«Ma questo vorrebbe dire arrendersi!»
«Davvero? E che alternative avresti da propormi?»
«Nessuna,» ammise «ma la tua idea metterebbe fine a tutto.»
«E diventare come loro non lo farebbe comunque?» lui la osservò a lungo, prendendole poi il frammento dalle mani. Lei ne raccolse un altro ed insieme si sedettero vicini, si guardarono ancora una volta e con un colpo secco si tagliarono i polsi. Si presero per mano mentre il sangue che sgorgava dalle ferite diventava uno, aspettando la fine.
Viktor aprì gli occhi, disteso a terra con la vista annebbiata intravedeva solo opachi sprazzi di colori che andavano via via disperdendosi. Provò ad alzarsi ma era come se avesse chiodi conficcati nei muscoli.
«Aspetta ad alzarti,» sentì dire la voce della ragazza «la prima volta è più lunga riprendersi».
«Dove siamo?» biascicò.
«Io lo chiamo Kùxha, il labirinto di cubi; è il posto da dove sei arrivato, la sua immagine è ancora nella tua mente. Io l’avevo scordato…»
Si mise lentamente seduto, mentre la bianca città si stendeva davanti a sé.
«Sei già stata qui?» Le domandò stupito.
La ragazza non rispose ma gli si avvicinò allungandoli la mano e, con un semplice sorriso, gli disse: «vuoi vedere un altro mondo?»
Francesco Gonella / 2019