Riflesso

Come away, O human child!
To the waters and the wild
With a feary, hand in hand,
For the world’s more full of weeping than you can understand

Correva, correva, correva veloce, nel verde più profondo e segreto. I piedi scalzi volavano leggeri sul morbido muschio, il profumo delle foglie morte e della terra umida gli entravano nei polmoni. Sempre più veloce, sempre più libero, sempre più felice. E finalmente il cielo era così vicino che poteva saltare e afferrare le nuvole con le mani. Correva, correva, correva veloce, finché rimase senza fiato. E si lasciò cadere a terra ad occhi chiusi, supino. Il respiro affannato e il volto sudato, sentiva il petto alzarsi e abbassarsi, mentre il suo corpo si riempiva fino alle estremità di aria fresca e pulita. Affondò le mani e i piedi nel terreno umido e morbido. Sentiva il bosco entrargli dentro e arrampicarsi sul suo corpo, attraverso la schiena e i fianchi. Se fosse rimasto lì si sarebbe trasformato in pietra o in radice. Aprì gli occhi e vide la luce verde filtrare dal tetto di foglie. Era libero, era felice. Poco alla volta riprese fiato e ritrovò la calma. Si sentiva avvolgere in un’ovatta di pace e lieve frusciare di fronde. Il bosco lo abbracciava e lo cullava, come faceva la mamma quando da piccolo piangeva per un ginocchio sbucciato. Respiravano all’unisono. Lentamente. In un silenzio intorpidito. Ma il mezzo sonno in cui galleggiava fu strappato in un attimo. Prima di riuscire a capire cosa stesse succedendo si sentì afferrare e sollevare da terra. Provò a liberarsi ma una strana forza lo trascinava lontano, mentre gli alberi vorticavano veloci intorno a lui. Un mondo liquido e freddo lo avvolse. Cercò di divincolarsi e scalciare, inutilmente, le braccia e le gambe trattenute da mille artigli. L’aria stava mancando in fretta. E poi fu buio, e fu silenzio.

Quattro ore che era scomparso. Cinque. Sei. Poi perse il conto. Sempre troppe. Una madre sa sempre quando il proprio figlio è in pericolo. A volte lo sa troppo tardi. Lo cercavano tutti, ma di lui nessun segno. Bisognava cercarlo nel bosco dietro casa, poco esteso ma denso di rami intricati e luoghi segreti. Luoghi pericolosi. Le forre, le doline, le polle. Dio, fa che non sia finito nelle polle.

Che cosa può fare una madre, mentre aspetta di sapere se il figlio è vivo o morto, e come uniche compagne ha Ansia e Paura? Parlano troppo, Ansia e Paura, ti urlano dentro, assordandoti. Per non sentirle non faceva altro che correre da un lato all’altro della cucina, riassettando, spolverando, lavando e asciugando le stoviglie già pulite, e di nuovo riassettando, spolverando, lavando e asciugando le stoviglie. Doveva preparare qualcosa di caldo da mangiare, per quando tutti quelli che li stavano aiutando fossero rientrati, stanchi e infreddoliti. Per quando suo figlio fosse tornato. E si era messa a cucinare una zuppa. Ormai erano le due di notte, le squadre iniziavano a rientrare. Senza di lui. Né vivo, né morto. Altro tempo da vivere nell’angoscia. Altro tempo per sperare. Era troppo buio, non potevano continuare ancora a lungo. Verso le tre rientrarono anche gli ultimi, fra i quali c’era anche suo marito, Andrea. Affaticati e amareggiati. A mani vuote. Non era possibile che non l’avessero trovato. Avevano controllato tutto il bosco? Erano arrivati fino alle doline, fino alle polle? No, di notte era troppo pericoloso, bisognava aspettare che facesse giorno. Avrebbero ripreso le ricerche nelle ore successive. Ora dovevano dormire.

Dormire? No, no, no, che andassero loro a dormire, lei sarebbe rimasta alzata, ad aspettare. No, non sarebbe stata ragionevole. No, non era stanca. Che la lasciassero in pace. Decine di mani che non riconosceva la prendevano dolcemente, per trattenerla e tranquillizzarla. Sentì una voce intorno a lei: «Due di queste e si calmerà subito.» Qualcuno le mise in mano una tazza calda e la costrinse a bere. In breve tempo il torpore le prese il corpo e la mente. Sentì le braccia di suo marito avvolgerla forte e sollevarla, per portarla a letto già mezza addormentata.

Si svegliò con la luce del sole che entrava dalla finestra, ancora intontita dai sonniferi che le avevano dato poche ore prima. Andrea era già sceso. E non l’aveva svegliata, maledizione! Si vestì rapidamente e in un attimo era in cucina. Le squadre erano già uscite tutte per continuare le ricerche interrotte la notte precedente. E lei cosa poteva fare, se non aspettare ancora? E mentre aspettava riassettava, spolverava, lavava e asciugava le stoviglie già pulite. Riassettava, spolverava, lavava e asciugava le stoviglie. Verso mezzogiorno le squadre iniziarono a tornare. Non lo avevano trovato, da nessuna parte. Com’era possibile? Doveva essere nel bosco, erano sicuri di aver cercato ovunque? Erano certi di aver controllato bene fra le doline e le fosse? E le polle? Erano sicuri che non ci fossero segni del suo passaggio nei pressi? No, nessun segno del bambino. Andava avanti e indietro attraverso la cucina, incapace di dare a quello che succedeva un senso. E poi il telefono squillò. Con il cuore in gola per il terrore di sentire parole alle quali non poteva credere rimase a fissare l’apparecchio. Nella stanza erano tutti in attesa che rispondesse. Alla fine fu suo marito a prendere in mano il telefono. Lo vide corrugare la fronte, concentrato su quello che stava ascoltando. «Sì, certo. Ho capito. Arrivo subito.» Riagganciò e la osservò in silenzio, e poi il volto si distese in un sorriso. «Lo hanno trovato. Sta bene.» Lo hanno trovato. Sta bene. Lo hanno trovato. Sta bene. Se suo marito aveva detto altro non lo aveva nemmeno sentito. Si accasciò a terra, stremata dall’ansia e dalla preoccupazione che l’avevano tenuta in piedi nonostante la stanchezza, e pianse. Suo marito si chinò e l’abbracciò stretta: «Vado a prenderlo, te lo riporto a casa» le sussurrò all’orecchio. Dopo meno di mezz’ora era di ritorno, portando in braccio un fagotto avvolto in una coperta. Quando entrarono in casa si precipitò su di loro e li abbracciò forte, prese suo figlio in braccio e se lo strinse al petto, cullandolo come un neonato, sussurrandogli in lacrime: «Marco! Non farlo mai più, non devi farlo mai più». Lo guardò, accarezzandogli la fronte e i capelli. Il viso era sporco e scavato da profonde occhiaie, lo sguardo duro e freddo, il corpo gelato. Stava tenendo fra le braccia un morto. Povero il suo bambino. Ma ora era a casa, ed era salvo e illeso, e questa era la cosa importante. Ora c’era la sua mamma, a prendersi cura di lui. Avrebbe sistemato tutto lei.

Nei giorni seguenti capì che qualcosa non andava. Una madre sa sempre quando nel proprio figlio c’è qualcosa che non va. A volte lo sa troppo tardi. Era sempre stato un bambino vivace e rumoroso e sapeva sempre in quale parte della casa o del giardino si trovava, ascoltando le sue grida di vita. Adesso, invece, se lo ritrovava davanti all’improvviso, come uno spettro materializzatosi dal nulla. Era diventato un estraneo, fatto di silenzi e sguardi che non gli riconosceva. A volte lo sorprendeva all’angolo opposto della stanza, intento a studiarla mentre cucinava o lavava il pavimento o stirava. «Qualcosa non va? Stai male?» La fissava con occhi freddi e duri e poi se ne andava, senza risponderle, lasciandola lì, a chiedersi se davvero aveva appena parlato con suo figlio, se davvero era appena uscito dalla stanza. Il suo bambino era tornato a casa, ma con lui era arrivato un ospite sconosciuto.

Un giorno era in cucina a lavare i piatti quando all’improvviso sentì una presenza alle sue spalle. Si voltò, spaventata, e si trovò di fronte Marco, lo sguardo impassibile e il braccio sanguinante. «Ben mi ha morso» disse con voce piatta. Ben era il cane del vicino, con il quale suo figlio era abituato a passare gran parte del suo tempo. Prima di perdersi. Era un cane docile e tranquillo, che non abbaiava nemmeno al postino e non aveva mai rincorso neanche un gatto. Adorava Marco ed era normale per lei trovarli insieme in cortile a giocare. Mentre lo medicava il bambino disse che quando lo aveva visto il cane aveva iniziato a ringhiare, il pelo dritto e le gengive scoperte. Aveva provato ad allontanarsi lentamente, la bestia però con uno scatto improvviso gli si era avventato contro e lo aveva morso al braccio. Senza nessun motivo. Raccontò tutto questo con una voce strana, lo sguardo perso nel vuoto, negli occhi uno sentimento che non gli conosceva. Lei gli curava la ferita cercando di non guardarlo in volto, perché temeva di non riuscire a nascondere i suoi dubbi e i suoi timori. All’improvviso cinque dita sottili e uncinate le afferrarono una spalla, facendole male e costringendola ad alzare lo sguardo. La stava trattenendo con il braccio sano. «Mamma, tu mi credi, vero? Sai che sto dicendo la verità». Si sentì rabbrividire, leggendo per la prima volta cosa c’era di strano nei suoi occhi. Fermezza e odio. Mentì. «Certamente, tesoro».

Quando quella sera raccontò ad Andrea l’accaduto suo marito andò su tutte le furie. Se quel cane era pericoloso bisognava denunciarlo e farlo abbattere. A quelle parole la donna trasalì. «Ma è sempre stato tranquillo, forse si è sentito provocato da qualcosa». Andrea la fissò in silenzio, come se stesse cercando di capire cosa stava dicendo davvero. «Intendi dire che è stato nostro figlio a farsi mordere? Ma se è solo un bambino! E poi tu dovresti preoccuparti per lui, non per uno stupido cane». «Ma io sono preoccupata per nostro figlio, lo sono sempre. E non voglio che a Ben venga fatto del male perché è l’unico legame che ho con nostro figlio». Si rese conto di cosa aveva detto solo quando ormai le parole erano lì, in mezzo a loro. Era la prima volta che lo diceva a voce alta. Cercò di spiegare a suo marito i suoi dubbi, le sue paure, tutte le stranezze che la preoccupavano. Lui ascoltava con attenzione, e quando finì rimase in silenzio. Poi le sue parole la colpirono, affilate come frammenti di vetro rotto. «Anna, stai dicendo cose senza senso. Quello che è successo quella notte ti ha sconvolto. Abbiamo temuto entrambi di perderlo, ma evidentemente tu non ti sei ancora ripresa. E adesso leggi segni assurdi in comportamenti normalissimi. Nostro figlio non è più un bambino, sta solo crescendo. Tutto questo è irrazionale».

Irrazionale? Cosa c’era di razionale nell’essere madre e nel capire la verità della creatura che aveva messo al mondo? Niente. Ma lei lo sapeva con certezza. Quello non era suo figlio.

Andrea aveva parlato con il vicino, avevano chiamato un veterinario e insieme avevano visitato Ben. Il cane era normalissimo, fiducioso e scodinzolante come sempre. Avevano allora chiesto a Marco di avvicinarsi, per capire se effettivamente poteva esserci qualcosa che non andava. Appena il bambino mise piede in cortile il cane cambiò completamente. Il pelo della schiena dritto, iniziò a ringhiare e gli occhi divennero due palle nere, prive di espressione. Il vicino, per quanto impreparato a quella reazione, fu rapido nell’afferrare Ben per il collare e trattenerlo proprio mentre si stava lanciando su Marco. Il veterinario decise che quel comportamento non era stato provocato in nessun modo. Il cane ormai era vecchio, e ad alcuni succedeva di non riconoscere le persone alle quali erano abituati e di diventare aggressivi. Come se impazzissero. Andrea voleva che Ben venisse soppresso, era troppo pericoloso per il bambino, ma il vicino gli era troppo affezionato e promise che l’avrebbe tenuto chiuso in un recinto, in modo che non potesse fare di nuovo del male a qualcuno.

Dalla finestra della cucina Anna guardava il povero Ben deperire ogni giorno di più nella sua prigione, mentre il bambino era libero di andarsene dove voleva. Il cane non era abituato a quel trattamento, ormai vecchio non riusciva a capire quel cambiamento e ad adattarvisi. Anna vedeva Marco attraversare il cortile senza neanche guardare in direzione della gabbia, con uno sguardo sicuro e soddisfatto, mentre Ben, appena percepiva la sua presenza, si irrigidiva e iniziava a ringhiare tremando tutto. Lo studiava cercando di non farsi scoprire, notando ogni giorno un particolare che le dava l’ennesima conferma di avere ragione e che non era pazza. Non aveva più avuto il coraggio di riparlarne con Andrea. Solo Ben la pensava come lei.

Stava ricordando la mattina in cui avevano ritrovato Marco. Era nel fienile di uno dei vicini, addormentato fra le balle di fieno. Non era ben chiaro quando si fosse rifugiato lì dentro, il posto era già stato setacciato la notte precedente come tutti i fienili della zona, senza trovare nulla. Dove fosse stato per tutte quelle ore, prima che lo trovassero, non glielo avevano mai chiesto. Mentre era persa nei suoi pensieri Marco le comparve davanti. Lo guardò dritto negli occhi e sputò fuori la domanda: «Quella volta che ti sei perso di notte dove sei stato?» Il bambino sosteneva il suo sguardo: «Non lo so».

«Sei stato nel bosco?»

«Credo di sì.»

«Qui vicino o ti sei spinto all’interno?»

«Sono arrivato dove è più fitto.»

«Sei stato alle polle?»

Marco guardava un punto oltre le sue spalle, lo sguardo fisso e indifferente.

«Marco, rispondimi. Sei stato alle polle?»

«Sì.»

«E che cosa è successo?»

Il bambino fissava il vuoto, chiuso nel suo silenzio.

«Guardami. Cosa è successo? Ho detto guardami!»

Pronunciando l’ultima parte della frase la voce le si era incrinata. Suo figlio si volse di scatto verso di lei, come se si improvvisamente si accorgesse che era lì, di fronte a lui. Vedendola, nei suoi occhi qualcosa cambiò. Dolore. E odio. Le parole gli uscirono in un soffio lieve.

«Ho conosciuto il mio riflesso».

Le polle erano le risorgive di una fitta rete di torrenti e canali sotterranei che in quella zona, attraverso una serie tortuosa di gallerie e cunicoli, riportavano in superficie le loro fredde acque oscure. All’apparenza erano piccoli stagni tranquilli, in realtà erano pozzi senza fondo, le cui acque venivano spesso sconvolte da violenti vortici che risucchiavano qualunque cosa in profondità, per poi risputarla in briciole nel fiume che delimitava il bosco a est, e al quale erano collegate sempre per via sotterranea. Erano così uniche e particolari che da tutte le università del paese e anche da quelle estere i più importanti geologi venivano a studiare il fenomeno, accompagnati dai loro studenti. La gente del posto, comunque, non aveva bisogno di eminenti scienziati per sapere che le polle erano un luogo da rispettare e temere. Tutti avevano sentito fin da bambini le storie delle creature magiche che vivevano nelle loro acque turbinanti, trascinando al loro interno i malcapitati viaggiatori che vi si avvicinavano troppo. Solo favole e leggende, credenze popolari nate per mettere in guardia da un pericolo al quale non sapevano ancora dare una spiegazione.

Marco era nella sua camera quando Anna uscì in cortile. Si diresse verso la gabbia di Ben, liberò il cane e insieme entrarono nel bosco dietro casa. La luce filtrava attraverso le fronde in alto, disegnando ombre vive sul sentiero. Lo percorsero fino al punto in cui il sottobosco era così fitto da occuparlo interamente. Allora Anna si fece strada attraverso i rovi e i rami più bassi. Ben la seguiva tranquillo, felice per la libertà ritrovata. Non sapeva esattamente quale fosse la direzione da seguire, si lasciava guidare dall’istinto. All’improvviso si ritrovò in un’ampia radura. L’aria era fresca e pulita, la luce filtrava verde e liquida dalla volta di rami intrecciati, il suolo era soffice e umido, coperto di morbido muschio. Il rumore delle foglie mosse dal vento si mescolava con quello di acqua che scorreva e ribolliva. All’estremità opposta le vide. Ecco le polle. Fece qualche passo fino al centro della radura, seguita da Ben, e lì si fermò. Sentiva un leggero brivido percorrerle la spina dorsale, e crescerle una paura infantile nutrita di superstizioni e vecchie storie, raccontate perché i bambini non si mettessero nei guai. Si accorse che il cane stava emettendo un basso brontolio, quasi impercettibile. Si volse di scatto. Marco era dietro di lei, sull’orlo della radura, uno spirito dei boschi comparso all’improvviso per spaventarla.

«Cosa ci fai qui?»

Anna non sapeva cosa rispondere, e d’istinto mentì: «Volevo sgranchirmi le gambe e ho portato Ben a fare una passeggiata».

Il bambino la fissava. Sapeva che stava mentendo. Le si avvicinò con calma. Ben iniziò a ringhiare con più decisione, il pelo dritto. Quando le fu davanti volse lo sguardo verso le polle. «Sono bellissime. Vuoi vederle?» Non le lasciò il tempo di rispondere, le prese il polso e la trascinò verso l’acqua. La sua mano di bambino la stringeva con una forza che non poteva essere sua, le dita sottili e aguzze conficcate a fondo nella carne. Ben iniziò ad abbaiare con forza, ma era come se il bosco proteggesse Marco, impedendo al cane di avvicinarsi troppo. La mise a forza in ginocchio sull’orlo della polla più grande, costringendola a guardare la superficie gorgogliante. Dalle bolle che infrangevano la superficie dell’acqua vide emergere il loro riflesso. Si spaventò ancora di più vedendo il terrore nei propri occhi e la fredda decisione in quelli del bambino. «Mi stai facendo male! Lasciami subito. Marco! Lasciami!» Dietro di loro Ben abbaiava sempre più forte, impedendole di pensare. Se almeno qualcuno lo avesse sentito. Poi lo vide. Dalle profondità sotto il riflesso di Marco stava risalendo qualcuno. Accanto al suo doppio d’acqua, emerse il volto di suo figlio. Eccolo lì, lo sguardo che ancora ricordava. Tendeva le braccia verso di lei, chiedendole aiuto in silenzio. Lo aveva trovato, il suo bambino era finalmente lì con lei. Allungò la mano libera verso l’immagine di Marco per afferrarlo e aiutarlo ad uscire dalla polla. Appena le sue dita sfiorarono l’acqua si sentì afferrare da due mani forti e tirare verso il basso, fin dentro l’acqua. Sentiva che Marco la spingeva dall’alto, sulla testa e sulle spalle, mentre le braccia erano imprigionate da lacci che le tagliavano la carne, trascinandola sempre più giù. Cercò di urlare e chiedere aiuto ma la bocca le si riempì d’acqua. Nelle orecchie un rimbombo liquido che si mescolava all’abbaiare ora incontrollato del cane. Lottava e si divincolava con tutte le sue forze, ma si sentiva sempre più debole, incapace di contrastare quella potenza misteriosa che la voleva imprigionare nella polla. E poi non poté fare altro che lasciarsi andare. Giù, sempre più giù. Fino a quando tornarono la pace e il silenzio.

Riaprì gli occhi e si ritrovò a galleggiare in un mondo liquido e verde. Accanto a lei c’era il suo Marco che le sorrideva, lo sguardo caldo e vivace che tanto amava. «Ti aspettavo, mamma. Sapevo che mi avresti trovato». Finalmente poteva di nuovo stringere il suo bambino fra le braccia. Stava bene ed erano di nuovo insieme. Un’ombra silenziosa passò sopra di loro. Alzarono entrambi lo sguardo, verso la superficie dell’acqua che lasciava filtrare la luce della radura. Un altro Marco e un’altra Anna li stavano fissando dall’alto, lo sguardo di entrambi freddo e duro, due sorrisi soddisfatti e cattivi. Il riflesso in alto si dissolse in un gorgoglio di bolle. Era sparito, non esisteva più. Potevano di nuovo essere felici. Sentivano un cane abbaiare lontano, sempre più debolmente.

Alice FK / 2016

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