Osservatore

Etna, lava e cielo blu limpido

La mia generazione scoprì il viaggio e con esso vennero i problemi.

Intendo il viaggio come cazzeggio spinto, l’auto lungo le strade polverose, l’aereo che solca i cieli con i businessman in top class, la riduzione del mondo a quattro segni di carta.

Questo era quello che pensavo mentre salivo nella zona delle suite imperiali al Jumeirah Emirates Towers di Dubahi attirato dall’odore innaturale del petrolio e dalla facile disponibilità di denaro

Pensieri innaturali come vedete, ma io Arturo Bindani, di professione broker e CEO di una inesistente ditta di auto di lusso della bassa modenese avevo bisogno di vedere.

Cosa volevo vedere non lo sapevo ma mi ero accodato tra coloro che viaggiano con mete apparentemente precise che portano poi in altri luoghi immaginari della mente.

Quando l’aereo atterrò vidi che mancavano gli alberi, la natura era ridotta ad una monotona teoria di rossi e gialli, intervallati da strisce di asfalto scure e rade palme ad alto fusto che non potevano definirsi ai miei occhi di occidentale, se non copie ridicole di un vero albero.

Ma in quel momento non diedi peso alla visione ne presi nota quasi inconsciamente in un angolo della mia mente. Ero andato lì per vedere  ma non sapevo ancora bene cosa e dove. Mi sentivo però sicuro che l’assenza di alberi o, se volete la presenza di sparute palme striminzite, fosse una cosa degna di nota.

Scesi la scaletta dell’aereo, unico europeo vestito casual in mezzo ad una teoria di affaristi in doppio petto e illustri arabi in ghalabia e kefiah. Ed ancora al ritiro bagagli, unico europeo con Zaino da viaggio tra una selva di trolley in plastica e ventiquattrore in pelle con catena d’oro e manetta di sicurezza. Ed ancora all’uscita dell’aeroporto l’unico viaggiatore non atteso da garzoni di hotel con cartelli con stampati nomi occidentali con errori di battitura o non atteso da lunghe limo nere piantonate da guardie armate in giacca e cravatta.

-Taxi!-

Gettai lo zaino nel bagagliaio ed entrai nel taxi, lasciandomi sprofondare nel divanetto di pelle sfondato di una vecchia Mercedes di grossa cilindrata.

Adesso dovevo solo arrivare all’hotel per turisti dove lasciare le mie cose e cambiarmi d’abito, attento che l’unico vestito importante non venisse rovinato durante il trasporto.

Diedi nome e indirizzo in un arabo appena passabile e osservai dal finestrino la selva di palazzi e grattacieli che ricoprono la sabbia bituminosa di questo angolo di pianeta.

Cambiato d’abito e sbarbato, dopo aver mangiato un misero kebab che però mi permetteva di rinunciare velocemente alla cena salgo , attento a non incontrare camerieri o lavoratori al piano che stanno sempre lì a cercare di comprendere cosa vuole fare uno se appena appena non ha tutte le cose a posto.

E quindi eccomi qui, ora con tutte le balle a proposito di una mia suite imperiale sulla terrazza panoramica a passeggiare e guardare con noncuranza verso il mare. So essere convincente come cazzeggiatore viaggiante d’alto bordo.

Ma ora la cosa diventava improvvisamente seria.

Avevo ben chiaro chi avrei dovuto cercare per la prossima tappa del mio viaggio.

Asiatico, tra i 30 e i 40 possibilmente ben vestito e solo, i particolari definiscono l’uomo in questo caso e i particolari che mi avevano riferito definivano esattamente chi era la persona che dovevo incontrare.

Quale era lo scopo finale di questo mio viaggio non lo sapevo esattamente ma io sono un osservatore della realtà.

Non lo sono in maniera astratta o artistica, lo faccio proprio di mestiere. Sono stato assunto per osservare, non so in base a che criteri mi hanno ritenuto adatto. Le cose da controllare mi vengono richieste di volta in volta dall’associazione, ed è chiaro che è solo una facciata in quanto l’onlus che rappresento e che gravita nel campo della solidarietà, in pratica è un gioco di scatole cinesi che non so nemmeno io dove va a finire.

Una cosa non ho ancora capito, non mi è chiesto nulla di illegale o pericoloso eppure devo stare ben attento a non lasciare trapelare nulla.

Osservo anche questo, come tutto il resto e prima o dopo troverò l’indizio giusto che mi porterà un po’ più vicino alla verità.

-Mister Asuki?-

mi avvicino al soggetto, e gli allungo la mia carta nel modo più formale possibile per un europeo.

Mi guarda leggermente di traverso, forse non ha idea di chi si trova davanti, ma leggendo le mie credenziali si rilassa un poco.

-Buongiorno, Sig. Bindani, se lei avesse voluto porgermi il biglietto da visita correttamente avrebbe dovuto usare tutte e due le mani- In un perfetto italiano a far da contraltare al mio finto inglese elementare.

Vedendo la mia perplessità sorride, scoprendo un po’ i denti

-Ho vissuto anni nel suo paese, precisamente ho esplorato tutti i vostri boschi e le vostre macchie mediterranee, dal boscone della Mesola alla foresta Umbra, dai boschi dolomitici alle grandi foreste ai confini con la Francia, sono stato in tutte le zone che contenevano piante e… so chi è lei-

Ha visto che mi ha lasciato di sasso. Ho come l’impressione che conosca cose di cui io non sospetto nemmeno l’esistenza.

Mi accompagna alla sua suite e mi fa entrare. Nel chiudere la porta mi fa cenno di dirigermi verso il letto a baldacchino nell’altra stanza.

Un brivido. Intravvedo la serratura che scatta, Asuki alza la mano, i miei riflessi da karateka non mi aiutano.

Nero.

Incoscienza.




Sassi, caldo e sole della sera che illumina la scena. Apro un occhio, Toyota mimetica a 100 metri, due persone con il volto coperto da foulard accanto.

Niente kefiah, non siamo più in medio oriente.

Memorizzo e faccio finta di essere svenuto ancora. Devo capire.

-Si alzi con calma Sig. Bindani-

Bene: mi chiama per cognome; sa che sono sveglio e sa chi sono in realtà. Non sento ostilità nella voce. E’ sempre Asuki.

Mi alzo piano, è evidente che sono stato drogato per dormire. Mi hanno cambiato d’abito, ora indosso una mimetica e sono attrezzato di tutto punto per una missione. Ho anche un’arma.

-Appena ci siamo spiegati le darò anche le munizioni e il coltello. Evitiamo di farci del male se solo possiamo-

-Non si preoccupi, sono abituato a situazioni peggiori in questo mestiere-

-Non mi prenda in giro, so benissimo che se solo ne vedesse la possibilità mi troverei legato a rispondere alle sue domande- mi dice con un sogghigno, -Nonostante questo, tenga- mi porge armi e munizioni.

-Mi dia solo qualche attimo per spiegare, poi faccia ciò che deve o ciò che vuole.

La vede quella linea all’orizzonte? Sembra sia solo sabbia o sassi.

In effetti non è nulla di tutto questo; sono alberi. Se lei si guarda attorno noterà che siamo nel bel mezzo di un deserto sassoso, a temperature basse.-

Realizzo che ciò che i miei occhi vedevano non era ciò che la mia mente riteneva possibile, cancellando quell’incongruenza. Alberi. Migliaia di alberi all’orizzonte.

-Perché stiamo così lontani a guardarli? Sono solo alberi-

In fondo sono un esperto di alberi anche se non in maniera accademica, e da anni combatto la mia battaglia perché interi ecosistemi non vengano spazzati via dalla faccia della terra a causa dell’innata tendenza dell’uomo ad autodistruggersi.

-Bella domanda signor Bindani, io sarei anche andato a vedere, come le ho detto i miei studi sono esattamente gli stessi che per una vostra laurea in scienze forestali, ma mi sono state date istruzioni di portarla fino a qui e lasciare che fosse lei ad avvicinarsi a quegli alberi. Mi è anche stato ordinato di farlo in assoluta segretezza e di non far sapere a nessuno la cosa.

-Le dico sinceramente che una volta che lei andrà verso quegli alberi non so se rimarrò qui ad aspettarla o se dovrò andarmene. Vedrò allora cosa mi diranno i miei contatti.

Quindi era questo che volevamo da me. La ricerca di tutte le incongruenze nei vari luoghi dove mi sono trovato ad operare doveva allenarmi per questo?

Da quanto tempo la storia sta andando avanti?

Sono convinto che non sono solo e non sono il primo che sta ricercando.

Chi è venuto prima di me?

Asuki mi fa cenno di usare la Toyota e la cosa mi risulta un po’ strana in quanto non vedo altre auto attorno. In questi casi nei film il buono viene salvato dallo scoppio della sua auto da qualche evento fortuito ma io niente.

Intendo niente scoppio e niente evento. Si tratta alla fine, di una corsa su sterrato in avvicinamento alla fila di alberi.

All’interno dell’auto trovo che il mio pc, le mie attrezzature e pure i miei vestiti che avevo nel buco di hotel in Dubahi sono stati portati e sistemati dentro.

Mi domando perché proprio io che non ho studiato in maniera specifica biologia, scienze naturali o simili. A dire il vero non ho nessuna laurea specifica, anzi proprio nessuna laurea.

E’ vero ho vissuto in una casa dove ero circondato da migliaia di libri, molti soldi e nulla da fare se non leggere e trovare modi creativi di spendere il denaro di mia madre.

Madre che assieme alle mie due sorelle, non si curava più di tanto di quello che avrei potuto fare una volta cresciuto, tutta presa fra botox e apparizioni televisive in improbabili programmi da seconda serata.

Fatto sta che, completamente libero, ho letto quasi tutti i libri che erano parte integrante della villa con piscina acquistata dalla genitrice e utilizzato le varie stanze in sovrannumero per collezioni e catalogazioni infinite, dai tappi (tipica di una certa età della vita), fino alle monete rare, agli insetti e così via.

Qui davanti, a mano a mano che mi avvicinavo alla foresta artificiale, riscoprivo quella vecchia passione di collezionista ossessivo compulsivo. Le piante che avevo davanti e ai lati appartenevano tutte a specie completamente diverse, sembrava quasi che in un fronte si fossero dispiegate le pagine di un erbario universale.

Sul sedile accanto la solita busta che conoscevo bene, ma con il marchio di una onlus che non avevo mai visto prima.

Appena mi trovo ad una distanza dove posso abbracciare con uno sguardo un discreto numero di alberi e allo stesso tempo riuscire a capire le loro caratteristiche principali, fermo l’auto e la apro. All’interno i segni che mi indicano che posso andare avanti e fidarmi di queste persone nel codice che uso normalmente con i miei datori di lavoro.

ci dica ciò che vede, quando vuole tornare o se ha bisogno di qualsiasi cosa chiami Asuka, lui e i suoi uomini la aspetteranno. Se possibile dica loro quanto dovranno attenderla.”

All’interno della busta anche una microsim e una nanosim.

Inserisco la prima nel mio smartphone e trovo pre-caricati tre numeri: Asuka1; Asuka2; Progetto Linfa.

I collegamenti sono a posto, il cellulare ha carica e sicuramente ho la possibilità di avere gasolio da Asuka qualora fossi senza nell’auto.

Vado avanti ad esplorare cercando di girare attorno ala massa degli alberi che mi si presenta davanti.



Entrai in mezzo a quegli alberi dopo averci girato attorno per due giorni e aver bivaccato in auto prima di accorgermi della tendina ad apertura rapida e di tutto l’occorrente.

Ne uscii tre giorni dopo, con un profondo senso di turbamento.

Avevo chiamato altre volte nei giorni precedenti al numero del progetto, ma nessuno aveva mai risposto. Non ero pronto a parlare ma mi girava in testa una domanda -perché io?-

Adesso al mio secondo squillo, una voce femminile mi risponde (Asuki doveva avermi tenuto d’occhio), -Signor Bindani buongiorno, sono contenta a nome di tutto il progetto di sentirla. La metto in contatto anche con gli altri membri che attendono e dica pure ciò che vuole.-

-chi siete?- mi scappa fuori quasi dal limitare del mio pensiero -e soprattutto perché io?-

-Sì probabilmente è corretto che le dica almeno per sommi capi chi siamo, il perché dovrà attenderlo alla fine-

-Va bene, cominciate a dirmi –

-Siamo una società senza scopo di lucro, formata da studiosi e innamorati della cara vecchia terra in cui viviamo.

-Il nostro statuto ci pone di fronte alla necessità di creare, ricreare o recuperare, ambienti degradati o distrutti completamente dall’opera dell’uomo.

Il nostro problema più grosso dal punto di vista degli ecosistemi naturali, è quello di non poter procedere al recupero in quanto, nel momento in cui l’uomo sostituendo un ecosistema con un altro, per quanto degradato o minimale possa essere, crea un nuovo ambiente per così dire “naturale” al punto che qualsiasi nostro intervento diventa ecologicamente distruttivo del nuovo ambiente. Lei viene da un paese, l’Italia, in cui salvo pochissimi ambiti in cui resiste un minimo di wilderness, il paesaggio naturale è paesaggio umano-

Ok provo a digerire quello che mi è stato detto ma non tutto è entrato in profondità, dovrò recuperarlo più tardi nella mia memoria.

-Io non so se quello che vi sto per dire sarà di aiuto a voi e non so se dopo questo sarete ancora convinti di aver speso bene i vostri soldi.

Respiro e attendo che si siano spenti i mormorii di simpatia per la mia pessima battuta.

-Ho guardato intensamente, ho preso appunti, registrato, fotografato e catalogato. A dire il vero ho preso pure campioni per il mio erbario di arbusti tropicali che ancora non avevo.

Non c’è nulla che sia fuori posto, nulla che non sia curato e giusto; gli animali, gli ecosistemi, la concentrazione di una pianta rispetto ad un altra e di un parassita rispetto ad un altro. Tutto perfetto.

Nonostante questo, per me è stato noioso, artificiale, brutto.-

-riesce a spiegare meglio?-

-no, posso solo ripetere la parola brutto, o meglio non piacevole forse. Mi dispiace per voi. Immagino questo non sia quello che volevate sentire-

-no, non era quello che speravamo, in ogni caso grazie, mediteremo su questa decisione che lei ha preso e che solo lei, avrebbe potuto prendere-

Dall’altra parte attaccano e capisco che non avrebbe senso cercare di richiamare. Mi sento abbastanza ridicolo in questo contesto da spy story di infima serie.

Asuki mi ha raggiunto al campo e mi chiede di tornare con lui.

Prima di salire in auto, si rivolse a me, guardandomi con occhi che non saprei definire:

-Devo ringraziarla e sono convinto che ci rivedremo ancora. Queste piante verranno usate nel migliore dei modi e il deserto sassoso tornerà a coprire questa regione.-

Mi domando come fa a sapere già cosa ho detto, forse era anche lui in comunicazione, ma non ho modo di saperlo per adesso.

– Le chiedo di non preoccuparsi di quello che avverrà ora, in fondo è ciò che doveva essere fin dall’inizio. Come ci succede spesso in quanto razza umana, cercando di rimediare ad errori con altri errori abbiamo violentato un deserto per trasformarlo in bosco. Riducendo un ambiente a semplice mancanza, non abbiamo capito che in questo modo abbiamo agito come avessimo usato bombe incendiarie per spianare la strada verso il nemico, distruggendo boschi e foreste.

Per questo la ringrazio, consapevolmente o meno lei sta raccontandoci che la strada che dobbiamo prendere deve riuscire a comprendere la complessità che si nasconde in uno spazio apparentemente vuoto.-

Non c’era più nulla da dire su questa vicenda.

Ad Ulan Bator ci salutammo, convinti che non ci saremmo più rivisti.

Paolo Costa / 2016

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