
Quand’ero bambino mi risultava difficile dare un’età corretta alle persone più anziane di me. I miei nonni mi sono sempre apparsi come dei vecchi ma, a ripensarci ora, quando frequentavo le elementari erano più giovani dei miei genitori oggi sessantenni. Non mi capitava solo in famiglia, faticavo in generale a dare i giusti anni a molte persone. Ricordo una mattina alle elementari, durante la lezione di scienze: stavamo comparando le fasi della vita con le stagioni e alla maestra saltò in mente di chiederci in quale secondo noi lei si trovasse. Io risposi deciso che non poteva che star transitando nel cuore dell’autunno. La donna sbiancò, aveva appena trent’anni.
Penso che ciò si debba al modo diverso che aveva la gente di abbigliarsi molti anni orsono: il trucco nelle donne o l’eleganza d’abiti negli uomini erano meno in voga, soprattutto in un bucolico paesino di campagna come quello da cui provengo. Cosicché a volte mi capita, passeggiando per le vie acciottolate del paese, di rimanere interdetto incrociando personaggi che reputavo già con un piede nella fossa trent’anni fa. Mi sorprendo a trovarli vivi e, con uno sguardo tra l’idiota e lo stupito li osservo, calcolando quante decine d’anni oltre il centenario si siano spinti. Le occhiate che ricevo di rimando non sono cordiali. L’ultimo episodio mi ha colto qualche giorno orsono.
Era una mattina d’ottobre, tersa e inondata da sfumature d’arancio che mi spinsero verso il parco e lì, passeggiando per il viale alberato, d’un tratto scorsi un uomo che si avvicinava in direzione opposta, con il giornale sottobraccio.
Nel momento in cui ci incrociammo notai che nel portare il passo sulla gamba destra, tendeva a zoppicare e d’istinto alzai lo sguardo per inquadrargli il volto. Il taglio serioso degli occhi e il folto baffo bianco stile anni settanta smossero i circuiti della mia memoria, lasciandomi con la fronte aggrottata in una smorfia perplessa. Sentii di conoscerlo. Mi voltai verso l’uomo che mi aveva ormai superato e spremetti le meningi per ricordare. Fu il suo zoppicare ad illuminare i cunicoli dei miei ricordi.
“Professore?” Gridai.
Pensavo fosse ormai sepolto da tempo…
L’uomo si voltò e mi osservò con interesse, assottigliando gli occhi nello sforzo di identificare quale tra le centinaia di studenti che aveva allenato nella sua carriera corrispondesse ai miei lineamenti.
Mentre avanzavo con la mano tesa verso il mio professore di educazione fisica delle scuole medie, coprendo gli esigui metri che ci separavano, le immagini del passato sgorgarono prorompenti.
Mi fermai su di una in particolare, che finì per disegnare un sorriso divertito sul mio volto.
Il campo verde scuro, coperto delle prime margherite, si materializzò dinanzi a me e mi sembrò di tornare ad udire nitidamente lo scalpiccio dei nostri passi adolescenti che violavano il ghiaino della strada sterrata. Quella mattina di fine marzo del ’79 il professor Santi aveva fatto uno strappo alla regola: si andava a giocare a calcio, lasciandosi alle spalle pertiche, palle mediche e la fredda palestra della scuola, godendoci il primo sole primaverile. L’entusiasmo ci precedeva mentre, urlando, ridendo e scherzando ci avvicinavamo al campo parrocchiale che sorgeva a poche centinaia di metri dalla scuola, incastonato tra gli argini del fiume limpido. Non vedevamo l’ora di gonfiare la rete e metterci in mostra con le compagne che avrebbero seguito la partita da bordo campo.
Il professore, con il suo fare autoritario, formò le squadre e ci spedì nelle nostre metà campo, non senza tradire qualche breve sorriso di compiacimento nel vederci gioiosi, immerso assieme a noi nell’euforia di quella partita tanto attesa e che ci prometteva da tempo. Se avesse potuto si sarebbe lanciato a giocare in mezzo a noi, ma aveva deciso di mantenersi tristemente al margine, svolgendo il ruolo di arbitro imparziale della sfida e cercando di divertirsi senza partecipare al gioco.
Era il classico uomo tutto d’un pezzo, distaccato, che faticava ad esprimere anche minimamente le proprie emozioni. Lo guardavo con soggezione, la sua aria altera unita al baffo folto ed ordinato mi trasmettevano sensazioni di inferiorità e rispettosa distanza. Era un uomo molto allenato, alto e grosso dinanzi a noi mingherlini del primo anno e lo temevamo, soprattutto quando diveniva burbero, alzava la voce e bullizzava quelli più goffi o deboli di noi che non lo soddisfacevano nell’esecuzione degli esercizi ginnici. A quel tempo, se me l’avessero chiesto, gli avrei dato almeno cinquant’anni, misurando ingenuamente l’età in base alla sua severità, al baffo esagerato ed alla mole. A volte sapeva essere un despota e ci sfiancava a forza di corse e salti ad ostacoli, ma era anche appassionato dal nostro entusiasmo e ci concedeva sorprese piacevoli come quella che stavamo vivendo quel giorno.
Il primo affondo verso la porta avversaria lo guidai io nel ruolo di ala destra e si concluse con un successo. Mi involai sulla fascia saltando il goffo Carlo Meloni che finì a sbattere in modo eclatante contro la rete metallica che circondava il terreno di gioco e, mentre veniva sommerso dalle risate dei compagni, crossai teso e potente al centro; Mario Rocchi impattò la palla con una vera e propria zuccata, una botta sorda che quasi lo travolse, mentre la sfera si insaccò prepotente nella rete dietro l’immobile Sergio Bigarella, che mandò mani e braccia a farfalle.
Subito in vantaggio, inizio spumeggiante.
Serse Vaccari pareggiò pochi minuti dopo, grazie ad un rigore causato da un ingenuo fallo di mano commesso da Piero Zedda, ma la rimettemmo subito sul due a uno con un mio gol, prodotto di un rapido triangolo col buon Mario che mi ricambiò il favore.
L’entusiasmo era palpabile in quei spensierati momenti di esaltazione. Mi par ancora di sentire l’odore umido dell’erba che si strappava sotto le nostre scivolate e quello acre del sudore dei compagni e avversari nei corpo a corpo. Giocavamo instancabili, rapidi e senza sosta per sfruttare al meglio quella mezz’ora di agonismo ed aria pura che ci separavano dalla doccia tiepida e dalla seguente infame ora di matematica.
Il prof. Santi partecipava alle azioni correndo senza risparmio, fischiando e intimando, punzecchiando e incoraggiando, commentando le azioni. Si notava come fremesse per intervenire nel gioco, ma si tratteneva preda della sua corazza di docente.
La partita terminò sul tre a uno per la mia squadra, premiata nuovamente da un errore del povero Carlo Meloni, che spinse goffamente la palla nella sua porta nel tentativo di spazzarla in corner.
Al fischio finale il rammarico ci prese allo stomaco e un alone di malinconia calò su vincitori e vinti. A testa bassa ci apprestavamo ad uscire dal campo, sommessi e ormai rassegnati all’imminente ora di proporzioni e frazioni con la professoressa Dori.
Nessuno immaginava ciò che sarebbe accaduto di lì a poco.
L’urlo del prof. squarciò d’improvviso il mesto silenzio:
“Ti faccio il quarto Bigarellaaaa!!”.
Mi voltai. Novanta chili di muscoli cavalcavano agili superando la metà campo. Santi, palla al piede e capelli al vento avanzava inesorabile con un ghigno d’eccitazione stampato sul volto, deciso a gonfiare la rete e a sfogare tutta la voglia repressa di partecipare al gioco. Franco Lando e Gianni Russo gli si fecero incontro, sfidandolo con finte e risate, lasciandosi aggirare e saltare di proposito per alimentare la scena goliardica, mentre il buon Bigarella attendeva tra i pali, con i nervi tesi, l’arrivo della bordata. Io osservavo la scena divertito e rilassato, con le mani ai fianchi.
Mancavano ormai pochi metri all’agognato gol ed il professore si apprestava a caricare il tiro, quando una figura corpulenta comparve di sorpresa nel mio campo visivo. La mole di Carlo Meloni, reduce da una bruciante sconfitta con tanto di scivolone contro la rete metallica, autogol e memore delle prese per il culo rifilategli dal docente durante gli allenamenti di atletica, si involava verso l’obiettivo come un toro scatenato nell’arena, carico di frustrazione e voglia di rivincita.
Sentii il cuore sobbalzare nel petto e la tensione attanagliarmi alla gola perchè già presentivo la nefasta conclusione di quello scenario.
Passarono forse tre infiniti secondi prima che i due grossi corpi si trovassero a tu per tu. Non feci in tempo a gridare a Carlo di fermarsi. Il professore caricò il tiro, rimanendo in bilico con la gamba destra piantata nel terreno e il mancino per aria, pronto ad abbattersi sulla palla. Nel medesimo istante Carlo si distese in una scivolata imperiosa ed in uno sfregare d’erba e pantaloncini diresse il piede a martello in direzione della caviglia del professore.
Ancora adesso risuona nitido nelle mie orecchie il suono che divampò dall’impatto.
Un rumore secco, acuto, come uno schiaffo, una frustata. Ricordo che nella mia mente si materializzò un’immagine di qualche anno prima, quando una sera mi misi a saltare sul letto dei miei genitori e spezzai una delle doghe di legno. Il medesimo suono.
Un grido devastante squarciò l’aria. Un’AH barbarico e prolungato che risuonerà eternamente nella mia memoria.
Accorsi assieme agli altri, senza sapere cosa fare.
Il professore si dimenava senza controllo sul terreno, preda di convulsioni di dolore e rabbia, tenendosi a stento la gamba. Guardai Carlo, il volto pallido come quello di un morto e lo sguardo perso, atterrito di chi all’improvviso realizza di non aver ponderato adeguatamente l’effetto delle sue azioni. Ciò che avvenne in seguito fu un susseguirsi di immagini surreali.
“Assassinooooooo! Ti boccio Meloniii! Sei finitooooo!” Urlava il professore fuori di sè, rosso paonazzo.
Il mio compagno si inginocchiò sul terreno prendendosi i capelli tra le mani, le ragazze piombarono sul terreno esterrefatte, tutti circondavamo il docente e nell’aria le sue urla si mescolavano alle nostre frasi convulse:
“Cazzo gli ha distrutto la gamba!”
“Cosa facciamo adesso?”
“Che spettacolo!”
“Chiamiamo un’ambulanza!”
“Sta morendo!”
“Dove lo portiamo!?”
E via dicendo.
D’un tratto ebbi un’intuizione. Mi voltai in direzione del paese e visualizzai oltre l’argine la fattoria dei Polato. Presi Bigarella per un braccio e gli dissi di seguirmi.
Ero esausto dopo la partita, ma non ricordo di aver mai corso così veloce in vita mia e il tragitto tra il campo e la fattoria mi appare ora come un’unica immagine verde ed azzurra, con nel mezzo le mie gambe piegate nello scatto. Senza rendermene conto mi trovavo già di fronte al portone della stalla, gridando il nome del vecchio Polato affinché si affacciasse cosciente di dover far fronte ad un’emergenza.
Non appena uscì e ci vide sbiancati ed ansimanti, la bocca gli si spalancò per lo spavento e non riuscendo a pronunciare nessuna parola, si limitò semplicemente a raggruppare a punta le dita delle mani e ad agitarle assieme alle braccia in segno interrogativo.
“Ci serve il tuo carretto! Il prof. si è spaccato una gamba!” Gli dissi tra un fiato e l’altro.
Il vecchio agì veloce e sempre senza parlare. Un minuto dopo con il Bigarella trainavamo il carretto di legno e ferro sull’argine e scendevamo verso il campo.
Il professore aveva ormai smesso di urlare e mugugnava sconfitto ed incredulo, steso sul terreno. Ma le grida di dolore ritornarono prorompenti quando lo alzammo per riporlo sul carretto.
Allora anche le offese e le minacce tornarono a fendere le nostre orecchie e quelle del povero Carlo.
“Siete finiti!! Bestie siete, no giocatori! Meloooniii guarda cosa hai fattooo!! Vi boccio tutti!!”.
Una scena surreale si mostrava ai viandanti che passeggiavano sull’argine: un gruppetto di adolescenti avanzavano a testa bassa superando la salita dell’argine, goffi e stremati dalla tensione, sommersi da urla isteriche mentre trainavano un carretto con sopra un professore impazzito, affannandosi a raggiungere la scuola il prima possibile.
Dopo un tempo infinito giungemmo al portone della scuola e chiamammo a gran voce la bidella, che uscì di corsa trovandosi di fronte una scena che mai avrebbe sognato di vedere.
“E adesso tutti in classe e silenziooooo!!!” Intimò il prof con un ultimo ruggito.
Quindi strisciò come un verme fuori dal carretto, si alzò sulla gamba sana, prese a saltellare preda dell’adrenalina e in pochi balzi raggiunse il parcheggio antistante la scuola, estrasse dal marsupio la chiave della sua cinquecento, vi saltò dentro e partì sgommando verso il pronto soccorso.
Un pazzo scatenato. Ci abbandonò lì, sudati e sbigottiti, in un silenzio di pietra e prossimi a un’ora di matematica.
Sembra incredibile dirlo, ma quella fu l’ultima volta che lo vedemmo. La sua caviglia era malmessa e il poveraccio rimase in mutua fino alla fine della scuola. L’anno seguente, grazie ad un concorso, ottenne una promozione e venne trasferito in un liceo del capoluogo.
L’ultima immagine di lui che mi son portato appresso per tutti questi anni è quella di una sagoma furiosa e sbracciata, fuori controllo, che lascia la scuola saltellando ed il rombo del motore della cinquecento che si allontana, affievolendosi nell’aria, per morire poco a poco tra i muri del paese.
Con quest’immagine nella mente giungo quindi a stringergli la mano, ormai quarant’anni dopo.
Mi guarda ancora confuso, gli occhi nella medesima posizione di riflessione.
Allora l’incalzo, stringendogli la mano:
“Prof.! Sono Paolo Girardi, prima D alle medie di Rovezzo. Non si ricorda?”
Ma tarda a reagire e quindi insisto aggiungendo, con la voce già strozzata:
“…la partita…”
Un lampo di spavento si materializza negli occhi di colpo sbarrati e una smorfia di disappunto si disegna sul suo volto.
“Disgraziati, mi avete rovinato!” Sussurra, quasi sputando.
Mi blocco interdetto, con la bocca semiaperta, senza sapere cosa rispondere.
Allora lui incalza, staccandosi dalla presa della mia mano e dimenando le braccia.
“Mi par di sentire ancora il dolore, per Dio! Avevo ventotto anni e non ho praticamente più potuto correre! E non ho neanche avuto la soddisfazione di segarvi tutti!”
Quindi, vedendomi ammutolito ed impotente come quel giorno dinanzi alla scuola, mi manda al diavolo con un ultimo gestaccio, si volta e se na va a grandi passi zoppicanti.
Ventotto anni, penso, guardandolo allontanarsi.
Nicola Bellin / 2020