
Era difficile per i turisti capire perché la gente del posto lo chiamasse il Prato dell’Impiccato, anche se raramente usavamo quell’espressione davanti agli stranieri. Era una terrazza erbosa affacciata sul mare e che si apriva su un lato della piazza, protetta da una balaustra di marmo bianco accecante sotto il sole estivo e rinfrescata dall’ombra di alcuni alberi, sotto i quali stava un chiosco colorato. Nelle sere estive i villeggianti e gli abitanti del paesino si mescolavano per prendere un gelato o una bibita ghiacciata ai tavolini attorno al chiosco, in un clima a prima vista rilassato e allegro. I turisti spiccavano sui paesani per la molle inconsapevolezza con cui assaporavano le fresche ore illuminate dalle stelle, mentre con gesti vaghi sorseggiavano cocktail troppo dolci e mangiavano sorbetti alla frutta, come in una vecchia cartolina dai profili sbordati. Solo ad un osservatore attento, invece, non sarebbe sfuggito il modo famelico e quasi rabbioso con cui i miei compaesani, al contrario dei vacanzieri, si attardavano fino all’alba a bere birra, esplodendo a volte in risate sguaiate e dolorose, come se volessero aggrapparsi forte ad ogni attimo trascorso fuori di casa all’aria aperta.
Se uno solo di quei turisti che prima di tornare a casa esprimevano la loro invidia per noi, che abitavamo in quel piccolo paradiso, avesse deciso di trasferirsi stabilmente, con l’accorciarsi delle giornate avrebbe scoperto il vero volto del paese, che avrebbe annichilito qualsiasi suo entusiasmo.
Dalle montagne dietro le case bianche, strette l’una all’altra, l’inverno scendeva improvviso e feroce, scacciando con rabbia ostile la bella stagione, e con esso arrivavano i cani randagi che in estate si rifugiavano sulle alture per sfuggire alle torme di turisti. Il vento sferzante tormentava anche il mare, la cui superficie spesso si trasformava in una lastra di ghiaccio tagliente. Nelle lunghe sere invernali nessuno osava uscire in piazza, né tanto meno sul grande prato affacciato sul mare. Durante i mesi freddi le risate e l’allegria che animavano il tappeto erboso fino a tardi erano un ricordo irreale, sostituite dal cupo rumore di una moltitudine di zampe che percuotevano nella notte il terreno indurito dal gelo, come un esercito di demoni frementi di andare in battaglia. Raramente si vedevano i cani di giorno, schivi e restii com’erano a qualsiasi contatto con le persone, eppure tutti sapevamo della loro presenza e che erano famelici e pericolosi. Il Prato dell’Impiccato era il loro dominio indiscusso. Di notte i loro ringhi e latrati si sentivano fino alle case più lontane e ogni tanto una zuffa lasciava a terra fino alla mattina successiva i resti insanguinati del cane che aveva avuto la peggio.
Gli spazzini, in estate così solerti nel tenere perfettamente puliti e in ordine la piazza e il prato, in inverno difficilmente si spingevano a pulire la sporcizia lasciata dai cani. Se anche quelle bestie di giorno stavano nascoste erano comunque sempre all’erta che nessuno invadesse il loro territorio, e se qualcuno avesse provato a posare anche solo un piede sull’erba bruciata dal gelo avrebbe sentito un lieve brontolio salire sempre più forte tutto attorno al prato. Un invito inequivocabile a tenersi a debita distanza.
La gente del posto odiava quei randagi che tenevano in ostaggio il paese e proliferavano senza controllo, tornando sempre più numerosi ogni inverno. Ma l’odio che attiravano non era dovuto solo alla loro ferocia, che se avessero voluto armarsi di fucili i miei compaesani avrebbero risolto il problema facilmente e in poco tempo. Eppure nessuno osava tanto, e se qualcuno dei giovani, che non avevano memoria di dove arrivassero e di quando si fossero visti la prima volta, azzardava a proporre qualche iniziativa per scacciarli definitivamente, i vecchi borbottavano anatemi facendosi il segno della croce, e guardando duramente l’incauto di turno gli dicevano che non si poteva, e di non ripeterlo neanche per scherzo, che era male.
Quando ero ragazzino una sera chiesi a mio nonno da dove arrivassero i cani e perché tutti ne avessero tanta paura. Con lo sguardo perso nel fuoco continuò a fumare la sua pipa, lasciando la mia domanda ad aspettare a mezz’aria.
Dopo un lungo silenzio iniziò il suo racconto:
«Fu tanto tempo fa, ormai siamo rimasti in pochi a ricordare come avvenne. Era l’ultimo inverno di guerra, anche se a quel tempo ancora non lo sapevamo, e ormai si era trasformata in guerra civile. Io ero ancora un ragazzino e non capivo bene cosa stava succedendo. Sapevo solo che gli adulti in casa parlavano sempre a voce bassa e che nessuno si fidava più della gente che conosceva da una vita. Era uno degli inverni più freddi di cui io abbia memoria, e poi c’era la fame che non aiutava e che ci divorava da dentro. Allora i cani già c’erano ma erano tranquilli e si rifugiavano nei boschi. Non si avvicinavano mai al paese, neanche la notte, sapevano che non avrebbero trovato avanzi e anzi, rischiavano di diventare loro la cena di qualcuno. Ogni tanto spariva una gallina dalle fattorie intorno al paese e allora si pensava potessero essere stati loro, d’altronde nessuno li aveva mai visti e quindi non era da escludere che il ladro fosse una faina o uno dei tanti disertori che, fuggendo dal fronte, cercavano di raggiungere la propria famiglia tenendosi nascosti nei boschi. Solo una volta furono visti procacciarsi il cibo, e fummo proprio mio padre ed io a vederli. Mio padre mi aveva chiesto di accompagnarlo a far legna, eravamo stati tutto il pomeriggio in mezzo al bosco ed eravamo riusciti a mettere insieme tre grosse fascine. All’imbrunire, ormai stanchi e con le braccia e la schiena doloranti, stavamo tornando verso casa. La strada per tornare al paese correva parallela al limitare del bosco. Eravamo quasi arrivati vicino ad un prato rinsecchito e leggermente in pendenza, conosciuto come il prato delle lepri perché alcune famiglie di lepri vi avevano scavato le loro tane. In quel momento cercava di pascolarci un piccolo gregge di pecore, smagrite dalla fame e abbandonate a loro stesse. Separata dal gregge stava una pecora che aveva appena partorito un agnellino. La madre, stremata, faticava a reggersi sulle zampe, mentre il cucciolo al contrario faceva i suoi primi tentativi di alzarsi e camminare. All’improvviso dal limitare degli alberi uscirono alcune ombre sottili e veloci. Erano i cani che puntavano decisi verso la pecora e il suo agnello. Una parte si avventò sul cucciolo, inerme di fronte alla loro fame feroce. La madre, incapace di difendere se stessa e il suo piccolo, belava la sua disperazione e subito il resto del branco le fu addosso come un’orda nera e incontenibile. Distolsi lo sguardo da quella vista cruenta ma mio padre mi costrinse a guardare. In pochi minuti quelle bestie schifose fecero a pezzi la pecora e l’agnello, contendendosi e strappandosi di bocca l’una con l’altra brani di carne e visceri sanguinanti. Si ringhiavano e abbaiavano addosso quasi con gioia brutale. Le altre pecore intanto erano scappate, disperdendosi nei prati attorno. In preda alla nausea chiesi a mio padre perché i cani, che io era abituato a considerare innocui, si erano comportati in quel modo e perché non avevamo fatto nulla. Mi rispose che si comportavano così perché era la fame e la paura di essa a guidarli, e che in quel momento stavano solo assecondando il loro istinto di sopravvivenza, e che non spettava a noi giudicare o mettere mano alle questioni della vita.
Non lo dissi mai a mio padre ma quello spettacolo macabro mi si presentò davanti agli occhi per parecchie notti consecutive dopo quella sera, impedendomi a lungo di dormire sonni sereni.
Ma anche durante la guerra i bambini sono bambini e durante il giorno non avevo tempo di pensare ai randagi e alla loro ferocia, impegnato com’ero a inventare sempre nuovi giochi con i miei cugini e i figli dei vicini e a far ammattire mia sorella più grande, che doveva stare attenta che non ci mettessimo nei guai. Una mattina di gennaio eravamo di nuovo nel campo delle lepri. La prima volta che ci tornavo dopo che avevo visto i cani sbranare la pecora e il suo agnello. Il più grande dei miei cugini ci aveva chiesto di andare con lui per controllare alcune trappole che aveva messo per catturare le lepri e io non ero riuscito a trattenere un’espressione di sgomento. I miei cugini conoscevano la storia delle pecore perché quella stessa sera mio padre aveva raccontato l’accaduto a casa di mio zio. Come tutti i ragazzini, che devono farsi vedere più coraggiosi dei coetanei, non capivano il mio sgomento e la mia riluttanza a parlarne, e dicevano anzi di invidiarmi per lo spettacolo a cui avevo potuto assistere. Così quella mattina, quando i miei cugini capirono che non avevo nessuna intenzione di tornare in quel posto, iniziarono a canzonarmi e a darmi del fifone. Ed ero davvero spaventato pensando ai prati al limitare del bosco, l’idea però che i miei cugini mi avrebbero preso in giro per chissà quanto tempo mi spaventava di più, e per farli stare zitti non solo accettai di andare con loro ma li sfidai a chi sarebbe arrivato prima. Corremmo a perdifiato nell’aria gelida di gennaio, percorrendo le stradine che attraversavano il paese per poi imboccare la strada bianca che ci avrebbe portati fino ai campi e ai pascoli. Pur essendo il più piccolo del gruppo non ero il più lento, così anche se avevo fatto attenzione a lasciare che fosse mio cugino più grande ad arrivare per primo non fui l’ultimo. Questa vergogna toccò al mio vicino, un ragazzino di un anno più grande di me, e quando finalmente arrivò lo prendemmo tutti in giro, tanto da far venire a lui le orecchie rosse e a me la certezza che non sarei più stato canzonato per le mie paure. Andammo a controllare le trappole messe da mio cugino. Erano trappole rozze e poco efficienti che si era costruito da solo con le sue mani inesperte, e infatti erano quasi tutte scattate da sole. Solo in un paio trovammo i resti di una lepre e di uno scoiattolo mezzi mangiati dagli altri animali, con gran rabbia di mio cugino.
La corsa nei campi non era servita a nulla, ormai però eravamo lì e potevamo approfittarne per giocare senza correre il rischio che qualche adulto ci sgridasse perché facevamo troppo rumore. Iniziammo a giocare alla guerra. Probabilmente perché ne sentivamo parlare sempre senza mai capirne molto in quegli anni era il gioco che più ci piaceva, anche se potevamo giocarci solo quando eravamo lontani dalle case. Ci dividemmo in due eserciti e, armati di rami e bastoni che avevamo trovato vicino agli alberi, iniziammo a combattere facendo finta di spararci. Io avevo il compito di sorvegliare il quartier generale, un grosso ceppo al limite del prato delle lepri. Mi ci sedetti sopra per controllare meglio l’avanzata dei nostri nemici. Da lì potevo spaziare con lo sguardo su tutti i campi tra il bosco e il paese e oltre, fino alla striscia blu del mare. La giornata era limpida e l’aria quasi di vetro. Di fronte ai colori dell’inverno e preso dal gioco con gli altri bambini la mia mente iniziò a fantasticare e a portarmi lontano.
All’improvviso un rantolo basso mi riportò sul ceppo nel prato delle lepri. Veniva dal bosco. Pensando che potesse essere un animale ferito mi avvicinai cauto. Appena prima degli alberi, in un avvallamento del terreno, era nascosto un uomo. Respirava a fatica, aveva gli occhi chiusi e la faccia sporca e sudata ma sotto la terra e il sangue incrostati si indovinavano i lineamenti giovani e delicati. Lo riconobbi subito. Era il figlio del fabbro, abitava nella nostra stessa via ed era solo di tre anni più grande di mia sorella, che allora aveva diciassette anni. Prima della guerra era famoso perché era considerato il ragazzo più promettente del paese. Era lo studente migliore e il padre andava dicendo che a costo di vendere la casa un ragazzo così doveva andare all’università, e tutti gli adulti lo stimavano perché si era sempre mostrato serio e rispettoso. Era amato anche dai suoi coetanei, dai ragazzi per la franchezza e lo spirito intraprendete e trascinante e dalle ragazze per la gentilezza e la bellezza efebica. Noi bambini non capivamo tutto quel sospirare e ci scambiavamo risate silenziose quando le sentivamo sciogliersi in sciocchi gorgoglii al suo passaggio. Perfino mia sorella, che era una ragazza seria e pratica, abituata a badare a me e ai miei cugini, quando lo incrociava non poteva fare a meno di sorridergli timidamente mentre le guance arrossivano. Quando era scoppiata la guerra, però, qualcosa era cambiato. Si era arruolato volontario e si era fatto apprezzare in fretta anche dai suoi superiori, ottenendo una promozione dietro l’altra, ma la vicinanza con quegli uomini e il desiderio di conquistare la loro stima l’avevano cambiato. In paese avevano smesso presto di rispettarlo e avevano iniziato ad avere paura di lui. A volte succedeva che qualcuno sparisse o venisse portato via dai soldati, e allora si faceva sempre il nome di questo ragazzo. Persino il padre, che prima avrebbe baciato la terra su cui camminava quel suo figlio tanto bravo, non lo riconosceva più, e quando qualcuno gli chiedeva come si trovasse nell’esercito scuoteva la testa, chiedendosi che fine avesse fatto il ragazzo a cui aveva voluto bene.
Con me era sempre stato gentile e ogni volta che si faceva vedere in paese nella sua divisa tirata a lucido mi regalava qualche caramella. Appena si allontanava però mia sorella, che ormai non sorrideva più timida quando lui la salutava, e anzi gli rispondeva con uno sguardo fiero e duro, le gettava via e diceva che non dovevo accettare i suoi regali.
Cercai di svegliarlo, chiamandolo per nome. Quando aprì gli occhi lo sguardo era annebbiato e febbricitante e mi riconobbe a fatica. Gli chiesi se stava bene, se voleva che chiamassi suo padre o il medico, ma sentendo quelle parole fu preso da una forte eccitazione, mi afferrò il braccio e strinse con forza, dicendo che non dovevo far sapere a nessuno che era lì o mi avrebbe ammazzato. Mi misi a gridare e a piangere spaventato e sentii un improvviso calore in mezzo ai pantaloni. Mi era fatto la pipì addosso per la paura. Le mie urla attirarono i miei cugini e li fecero correre verso di noi. Mio cugino più grande capì subito cosa stava succedendo e con uno strattone riuscì a liberarmi dalla presa dell’uomo. Vedendo quanti ragazzini eravamo la sua furia diventò ancora più forte e iniziò a minacciarci tutti, dicendo che nella foresta erano nascosti i suoi soldati e che se solo avessimo aperto bocca li avrebbe mandati a uccidere tutti noi e le nostre famiglie.
Il bosco dietro di lui era silenzioso ma la paura che potesse davvero comparire qualcuno da dietro gli alberi ci fece correre subito a casa. Arrivammo con il cuore che ci saltava in gola e quando mia sorella ci vide, bianchi come statue di gesso, ci chiese cosa fosse successo. Nessuno di noi però voleva parlare per paura di quello che ci avrebbero fatto i soldati. Mia sorella, che non aveva ancora maturato la stolidità degli adulti, aveva comunque capito che era successo qualcosa di grave, e se non le avessimo detto tutto sarebbe andata lei stessa a controllare cos’era successo. Le raccontammo chi avevamo trovato al limitare del bosco e chi temevamo fosse in attesa nascosto fra gli alberi. Rimase in silenzio e ci guardò con uno sguardo duro che non le conoscevo. Ci disse di rimanere in casa, sapeva lei cosa fare con i soldati, e uscì di corsa.
Dopo circa un’ora sentimmo un gran fracasso provenire dalla strada. Temevamo che i soldati fossero venuti a prenderci, così mio cugino più grande andò a spiare fuori dalla finestra mentre noi ci nascondevamo, ma subito ci disse di stare tranquilli perché erano solo i nostri parenti. Uscimmo in strada, curiosi di capire cosa stesse accadendo, ma rimanemmo impietriti di fronte ad uno spettacolo al quale non riuscivamo a dare un nome. Mia sorella, i miei genitori, i miei zii e tutti i vicini trascinavano a peso il figlio del fabbro, strattonandolo con forza e rimpallandoselo ruvidamente l’uno contro l’altro. In mezzo a loro il ragazzo si teneva in piedi a fatica, la testa china e le spalle curve, e quasi inciampava ad ogni passo, come una marionetta mossa da una mano inesperta e distratta e che ogni tanto perdeva un filo. I volti dei miei familiari erano per me quasi irriconoscibili, deformati e resi animaleschi dalla rabbia e dall’odio. Urlavano in modo aspro parole che non capivo ma che avevano il peso e la forma di pietre aguzze che scagliavano con forza contro il ragazzo già ferito. Non capivo cosa stessero facendo ma per qualche motivo mi fecero pensare a quella sera in cui vidi i cani fare a pezzi la pecora e il suo agnello e un senso di nausea mi prese allo stomaco.
Fra tutta quella gente c’era anche il fabbro, che non faceva nulla per aiutare il figlio ma anzi, scuoteva la testa con rassegnazione. Non avevamo mai visto gli adulti che conoscevamo comportarsi con tanta rabbia e furore ma anche se eravamo spaventati decidemmo di seguirli. Lo strano corteo si dirigeva verso la piazza del paese e mano a mano che avanzava altri compaesani si univano a quella Via Crucis.
Arrivati in piazza gettarono malamente a terra il ragazzo, continuando ad urlargli addosso. Finalmente alzò il volto e quando vidi la sua espressione capii che sapeva cosa stava per accadere. Lo sguardo spaventato mostrava tutta la fragilità dei suoi vent’anni, con gli occhi cercava il padre ma questi rimaneva a fissarlo indifferente. Da qualche parte iniziarono a partire pietre che gli finivano addosso con forza e precisione. Lui cercava di proteggersi come meglio poteva con le braccia.
All’improvviso nella folla si sentì distinta una voce, “Impicchiamolo!”, e non ricordo come, ci ritrovammo a trascinarlo fin sotto gli alberi nel prato di fianco alla piazza. Il ragazzo non opponeva più nemmeno resistenza. Qualcuno fece passare una corda sopra un grosso ramo, e senza dare il tempo al ragazzo di chiedere perdono per qualsiasi cosa avesse fatto gli infilarono il cappio al collo, tirando poi con forza l’altra estremità della corda. Tutti noi lì attorno eravamo ormai completamente presi dalla frenesia quasi gioiosa che ti prende quando sai che sta per succedere qualcosa di eccitante e liberatorio e prima che ce ne rendessimo conto il corpo fu sollevato da terra. Ricordo che nel punto in cui ero mi ritrovai all’improvviso davanti agli occhi gli stivali neri infangati che annaspavano nell’aria, in cerca di un punto d’appoggio, per poi essere presi da convulsioni scomposte e poi, alla fine, rimanere immobili.
Quando scese la morte azzittì tutti, come se solo in quel momento avessero capito cos’era successo. Non avrebbero saputo dire esattamente chi aveva portato la corda, chi gli aveva infilato il cappio e chi l’aveva sollevato. Forse in realtà non era stato nessuno di loro. Nessuno aveva il coraggio di tirare giù quel corpo, neanche suo padre.
In silenzio tornammo tutti alle nostre case e ci chiudemmo dentro.
Arrivò il tramonto e poi la notte. Nessuno vide esattamente come successe, la mattina dopo però del ragazzo non trovarono quasi nulla, solo qualche lembo di divisa insanguinata. Capirono che i cani randagi, guidati dalla fame e dall’istinto, erano usciti dal bosco per scendere in paese e arrivare fino al prato vicino alla piazza, e lì avevano fatto quello che avevano fatto. Pensarono tutti che si trattasse di una forma di grazia divina: non c’era più un corpo al quale dare sepoltura e sul quale posare una lapide che tenesse vivo il ricordo di ciò che lui aveva fatto a noi e di ciò che loro avevano fatto a lui.
Presto però capimmo che non avremmo più potuto dimenticare. I randagi, che fino ad allora erano stati miti e innocui verso le persone, ora avevano assaggiato il sapore del sangue avvelenato dall’odio. In pochi giorni divennero aggressivi fra di loro e con la gente del paese. Di giorno rimanevano nascosti ma di notte si riversavano lungo le stradine fra le case, impedendo alla gente di uscire e sbranandosi fra di loro se non trovavano nessuno da aggredire.
Dopo pochi mesi da quel linciaggio la guerra finì. Dicevano tutti che in poco tempo saremmo tornati ad una vita normale, come prima della guerra, ma questo non è mai successo perché i randagi sono rimasti. C’è stato qualcuno che ha cercato di cacciarli, sparando contro di loro o lasciando bocconi avvelenati nel prato, ma chi ci ha provato ogni volta è stato assalito dal branco e ammazzato prima che potesse ferire anche un solo cane.
Da allora ogni inverno il branco torna a prendere possesso del Prato dell’Impiccato e lì rimane, fino all’arrivo dell’estate, e nelle fredde notti da dentro le case ben chiuse tutti gli abitanti li possono sentire scorrazzare ringhiando lungo le strade del paese».
Mio nonno rimase in silenzio ad osservare il fuoco. Non sapevo cosa dire dopo quella storia. Io non avevo mai conosciuto la guerra e non potevo neanche immaginare cosa potesse far fare alle persone.
Pochi mesi dopo mio padre trovò lavoro in città e decise di portarci via da quel paese che per la maggior parte dell’anno veniva dimenticato da qualsiasi dio esistesse. Voleva che anche mio nonno venisse con noi ma lui, come tutti i vecchi, era legato al luogo dove aveva trascorso tutta la sua vita, anche se era stato un luogo avaro e crudele, e a quel punto non poteva più lasciarlo neanche volendo, perché ormai era anche lui parte di quel posto.
Adesso che mio nonno è morto faccio ormai parte dei villeggianti che vanno e vengono solo per il periodo estivo e non restano a subire le durezze dell’inverno come il resto dei paesani. Nonostante questo mentre leggo un libro in riva al mare, o bevo una birra fresca seduto ad un tavolino del chiosco in mezzo al prato, ogni tanto mi ricordo che fra i boschi fuori dal paese si aggira un branco di cani randagi, che attendono la nostra partenza per tornare ad impossessarsi degli spazi che appartengono loro.
E anche se non ho più trascorso un inverno al paese da quando l’ho lasciato con la mia famiglia, nonostante questo nelle notti invernali, quando il vento fa tremare i vetri delle finestre, mi sembra ancora di sentire i loro latrati e i ringhi rabbiosi.
Alice Gobbi / 2020