
di Alessandra Delogu
Ti osservo dietro il pannello a soffietto di plexiglass che hai fatto montare sulla vasca qualche anno fa per non bagnare a terra quando facevi la doccia. Seduta sullo sgabello, con la mascherina già fradicia incollata alla bocca, orienti con qualche difficoltà il soffione sopra la testa dando inizio al lavaggio dei capelli.
Da almeno un decennio non lo fai più da sola. I problemi articolari alle spalle ti costringono ogni settimana ad affidare a mani estranee la cura dei tuoi bellissimi capelli, un tempo biondi da fare invidia alle nordiche, e ora combattuti tra una candore che avanza con lentezza e un grigio cenere che resiste. Ma sempre forti e folti, sono i tuoi capelli.
Ti ho proposto di lavarteli io, ma hai rifiutato, forse per orgoglio o forse per paura di un contagio che immagini incombente come una impalpabile nuvola pestilenziale, delegandomi soltanto il compito di asciugarteli, come se per questa operazione non si infrangesse comunque il fatidico muro del metro, che da più di un mese ci distanzia e vuole farci dimenticare che siamo madre e figlia.
Al primo lavaggio casalingo abbiamo pagato lo scotto dell’inesperienza. Ti sei seduta sullo sgabello nel verso sbagliato e io non ti ho corretto, lasciando che lo spruzzo incerto venisse sparato qua e là e allagasse buona parte del bagno.
Adesso abbiamo imparato che le spalle vanno rivolte al muro, così, anziché di coronavirus, non rischiamo di morire folgorate maneggiando la spina inumidita del caldobagno che riscalda senza sosta l’ambiente e ci fa soffocare dietro le mascherine.
Mentre cospargi e massaggi la testa con lo shampoo, che hai acquistato di nuovo al supermercato, in occasione di una delle prime estenuanti spedizioni per la spesa settimanale, osservo la disposizione ordinata di creme, spazzole, pettini, cestini con fermacapelli esibita sul mobiletto che fu la mia libreria nella stanza siciliana di bambina, in origine di colore bianco e poi dipinta di rosa per fare pendant con le mattonelle del tuo bagno toscano che l’ha accolta quando io ero ormai una donna.
Ora che lo shampoo è stato sciacquato via e hai finito anche le abluzioni, ti porgo l’accappatoio prima di ricevere il secondo rifiuto di aiuto, quello a uscire dalla vasca il cui bordo è divenuto troppo alto per il tuo scarso equilibrio. È di tua competenza anche frizionare e poi lisciare con energia i capelli che il lavaggio a testa in giù ha aggrovigliato e reso riluttanti al passaggio del pettine.
Terminata anche questa operazione, finalmente acconsenti, docile, al mio intervento, quello finale: l’asciugatura. L’unico gesto che mi permette di toccarti e di ritrovare una intimità ora vietata, una intimità che fuori dalle mura domestiche devo essere pronta a giustificare all’autorità con un modulo che cambia di continuo. Non avremmo mai immaginato tre mesi fa di dover chiedere il permesso di incontrarci.
Armata di un phon molto primitivo, mi posiziono alle tue spalle e inizio ad asciugare. Non ho una sequenza automatica come ce l’ho per me stessa, così vado un po’ a senso, cominciando dalla nuca, che la tua artrosi cervicale esige perfettamente asciutta prima del resto, e proseguendo, sempre in basso, tutto intorno al collo, in modo che le ciocche più recondite non rimangano umide, sepolte sotto la massa di quelle superficiali. Alternando le mani pre-disinfettate, agito al calore del phon la tua chioma, sempre più vaporosa man mano che, asciugandosi, si alleggerisce. Sotto le dita sento che le ciocche stanno riprendendo forma e volume, le oasi di umidità si riducono e su di esse oriento il calore del phon, ora regolato a una temperatura più bassa affinché non arruffi la massa di capelli quasi asciutta.
Per migliorare il risultato finale azzardo un tentativo di messa in piega, giusto una lisciata con spazzola e phon per ridurre il volume che giudichi incontrollato e ti da fastidio. Opponi una blanda resistenza sostenendo che non è necessario, tanto li legherai subito dopo, ma io insisto e stavolta vinco quest’ultima battaglia. Vado a memoria, ricordando le mosse viste dal parrucchiere, e cerco di coordinare il movimento verso il basso della spazzola con quello del phon fino ad arrivare alle punte che tento di avvolgere su se stesse per dar loro una parvenza di piega e non lasciare che ricadano dritte e informi.
Appena spengo il phon ti alzi subito dallo sgabello senza neanche guardarti allo specchio, non ti importa niente della piega che hanno preso i capelli, hai solo fretta di farmi tornare a casa perché, insisti, perdo tempo prezioso ad aiutarti, quando, secondo te, bastano già le oltre due ore che ogni settimana trascorriamo insieme prima in fila e poi all’interno del supermercato, ognuna a fare la propria spesa. Prevedi con preoccupazione che i parrucchieri riapriranno tra gli ultimi, e di conseguenza il rito appena concluso del lavaggio dei capelli a casa si protrarrà ancora per molte settimane. Non a caso, mi viene da pensare, hai acquistato di recente una confezione nuova di zecca di shampoo. Eppure io so che in fondo la paura del contagio è solo scaramantica e che questo rito ti fa piacere, perché interrompe la faticosa solitudine di questo tempo sospeso e ci restituisce i ruoli di madre e di figlia.
Il tempo di arieggiare il bagno e stendere gli asciugamani che già mi vuoi accompagnare giù al portone, assicurando che i capelli in questo periodo rimangono puliti più a lungo perché non esci, stai sempre in casa e quindi ci rivedremo solo per la spesa la prossima settimana. Attendi sulla soglia che io entri in auto e metta in moto, così posso scorgerti dallo specchietto mentre mi saluti con un rapido gesto della mano e un bacio lanciato dalla mascherina che, diligentemente, tieni ancora sul volto.