
di Stefano Serri
Andiamo a trovare il Giorgione, mi sono detto. Chissà quante tele ha iniziato, nei lunghi pomeriggi della convalescenza. Nella stanza all’ingresso ha impilato quelle che crede migliori. Anche se sta guarendo, si sente già alla fine. Ha scelto il quadro con il drago lontano, quello con i tre uomini che parlano, la donna con l’alloro. Manca il soldato con la madonna velata, il mio preferito: quello lo hanno messo in chiesa ed è rimasto lì.
Ogni tanto vende un paesaggio o qualche ammiratore commissiona un ritratto di famiglia. Giorgione esegue, poi come sfondo mette le vedute della nostra campagna. Ogni angolo di roccia o di prato, così precisi da sembrare un volto, se li inventa lui di sana pianta. Non c’è mai un vero raggio di sole tra le sue tele. La luce si diffonde da un orizzonte blu, dove quel tondo arancione o giallino che è il sole non osa affacciarsi. Solo veli celesti, pulviscolo e punte più chiare. A vederla così, la terra sembra fatta solo per contemplare.
Non si è mai laureato. Si è bloccato in quella sua tesi sul bianco, senza riuscire a finirla e a scriverne la storia completa.
«Tutti dicono che il bianco non esiste. Forse hanno ragione, se non lo trovano e non lo toccano non esiste, ma è che quando le dita lo scoprono, e gli occhi pure, ecco che, anche se era bianco, non lo è più. L’osservazione uccide il bianco, lo trasforma. A che serve un colore, se non si riesce a osservarlo? Quindi non esiste in sé, ma è dentro ogni colore. E quello che non è colore, non è. Il bianco esiste in noi sempre, ma solo mescolato ad altro e fatto a pezzi.»
Secondo me il Giorgione si è ammalato per la troppa umidità, ostinato com’era nel voler dipingere all’aperto. Dentro casa, il colore gli ubbidiva meno, prendeva sfumature involontarie. Le montagne, quelle montagne ossessive che doveva aggiungere sul fondo di tutti i suoi quadri, loro lo costringevano a uscire. «E non te ne andare via!» aveva detto una volta alla montagna, mentre calava il sole. Se avesse potuto sollevarla con il suo pennello, e poi posarla tale e quale sul quadro, senza mutarla… Ne parlava spesso, di questo desiderio, ma con pudore.
Invece, quando descriveva Laura, la sua donna, la scopriva senza sosta, sempre nuova. La svestiva con le frasi, fino al petto, tra le cosce. Lei non ha mai avuto vita facile in questo paese. Le bastava uscire a prendere il pane per cadere nelle tagliole delle malelingue e delle beghine rissose. Non era superba: era sola, i suoi parenti emigrati tutti. Non lavorava; prima era bibliotecaria, ma le tele e gli schizzi di lui, del Giorgione, le hanno poi riempito i giorni. Dicevano fosse dissoluta – proprio questa parola, dissoluta, bisbigliano ancora le donne entrando in chiesa o uscendo dal pastificio – e che un giorno o l’altro avrebbe attaccato al pittore una strana e brutta malattia presa chissà dove.
La prima febbre gli è venuta dopo che hanno fatto l’amore per tutto un pomeriggio, mi dice Laura. Non smette di preoccuparsi, misura i deliri con il termometro. «Andiamo là in fondo, che dopo la montagna c’è un’altra montagna, siamo fatti per scavalcare orizzonti» dice lui, incerto tra il sorriso e la smania. Laura lo bagna. Alla sera, quando dorme, scrive tutto quello che le ha detto. Anche se strano e a volte sconclusionato, le sembra prezioso e ben fatto come i suoi quadri, vera ogni frase.
«Vuoi coprirmi i denti, ma c’è ancora una cosa da dire, lasciamela… mi posso alzare da solo se si alza il cuore… non tirarmi, salvami, salvami sempre, salvami due volte, resta con me e metti nel quadro lo sfondo che manca.»
Come se stesse dettando una lettera, Laura ascolta e annota, sentendosi in colpa per essere sana, con la sua pelle fresca. Lo veste, lo scopre, lui tace e si muove. Eccolo, non si muove più, davvero. Allora lo veste con molta più calma e chiama qualcuno che dica al suo posto la parola fine. Il funerale è celebrato in segreto. I suoi quadri non si possono girare contro il muro: li ha dipinti anche dietro e firmati su entrambi i lati.
Mi fermo ogni volta stupito, davanti alle facciate enormi di queste chiese padane, più o meno imbellettate, e che, dietro, hanno un tabernacolo minuscolo, così che tutto quello che entra si concentra e tutto quello che esce si amplifica e dilata.
Il trasloco della madonna del Giorgione rianimò il paese. Più volte, dentro il reticolo della città, quel quadro passeggiava come in una furtiva processione dalla casa del pittore alla casa di Dio, tra le proteste di alcuni cittadini e l’ammirazione di altri. Lo aveva commissionato un vecchio industriale, di quelli che infilano ovunque il proprio stemma crociato, con animali mitologici, fiori, e pure quelle ossa che lo rendono un po’ macabro: tre doppie file di costole, per l’esattezza. Voleva un quadro per ricordare il figlio, l’unico maschio dell’ultima generazione, morto in una piccola guerra lontana: per questo ai piedi del trono mariano s’inchina un soldato. Oltre a raffigurare il ragazzo scomparso servendosi delle fotografie rimaste, Giorgione aveva messo tra le sue ciglia un ammonimento a chi ancora gustava il presente, come una luce convinta di non doversi mai spegnere.
L’aveva affiancato in quell’impresa il suo anziano maestro, Vincenzo Campani. Vincenzo gli aveva sempre detto che ogni viso è il palcoscenico di un dramma e che un ritratto deve far agire i diversi segmenti del corpo e del viso come attori, tragici o comici che siano. E lui lo aveva messo in pratica, quel consiglio, facendo il ritratto alla madre morta, rappresentandola insieme giovane e vecchia, inscenando, con i tratti del volto di lei, il dramma stesso del tempo.
Aveva sempre bisogno di pioggia il Giorgione, di prenderla in faccia, negli occhi e nei quadri. Sotto un diluvio invocava gli angeli, i morti e i bambini, perché loro sanno far piangere o piovere il mondo. La voce di Laura, in cucina, lo sgridava:
«Non farti gelare il sangue dalle montagne… Entra dentro e dipingi il nostro letto, piuttosto… No, non manca niente al tuo quadro… Copriti almeno, se resti lì fuori, e non ti ammalare.»
Le notti sono azzurre. Dormo e vedo dove nasce la luce… Non c’è paura dietro le cose. La vita ignora la prospettiva… Troppa tela e troppo colore, la frana inizia nella mia mano, Laura, non seppellire la mia mano, te che sei l’unica di noi due a non tremare… La mia mano è la mia ultima fede… Dovranno scrostare le tele per trovarmi e sotto al colore troveranno luce… Il colore scende sul quadro e la tela non lo può ingoiare, vince sempre lui… Non chiudere il colore nei barattoli… Laura, mi hai dato tu questo colore, mi hai contagiato con il tuo pennello, per te era vita, per me non è più arcobaleno… Non c’è bisogno di macchie o forse no forse il paradiso è il colore totale allo stato più puro e senza toni e niente forma solo tinta… Non ci saranno bordi… Laura non puoi colorarti di più? Lascia stare la coperta ho bisogno di invasione… Non so se guarisco ma il sole qui fuori mi succhia i pennelli, me li beve e me li porta via in alto… Dovrei mangiare sole tutti i giorni prima di iniziare… Quanta eternità là fuori… Azzurra…E una montagna aspetta sempre che io parta.
Parlava, fino alla fine, aprendo gli occhi e insieme le mani. Negli ultimi giorni creava parole strane, sempre più complesse, in un dialetto infantile, con accenti tronchi, in una lingua imparata sui colli, miscuglio di ville poemi e bottiglie, lingua non fluida trovata nei tini, fatta per insultare i nomi dei padri e per chiedere scusa, una lingua che lancia i sassi e non ha inchini, senza sputi e senza salite, piena di vino e mai una pagnotta. Così mentre moriva Giorgione sabotava quel suo strano dialetto, lo scotennava e lo bolliva, lo serviva in una scodella bianca e azzurra alle orecchie della Laura e dei suoi pochi amici: lo lasciava raffreddare, con parole semplici da mangiare a sera tutti insieme, quando lui non ci sarebbe stato. Non lasciava testamento. Moriva sereno senza un segno di avanguardia.