
di Cristina Giuntini
“Dunque? Quanti nuovi casi di contagio, oggi?”
Il Dottor Krefeld si tolse lentamente gli occhiali e iniziò a pulirli, sotto lo sguardo impaziente del Comandante, poi li inforcò nuovamente, volgendo la testa di lato. Erano ormai settimane che la stessa conversazione si ripeteva, puntualmente, ogni giorno. Avrebbe potuto recitarla a memoria senza sbagliarne una parola.
“Fra i cinquecento e i seicento” disse infine, reprimendo un sospiro.
Fulmineo, secco, risuono’ nella stanza il rumore della mano aperta che il Comandante aveva battuto sul tavolo in un moto di stizza. “Dottor Krefeld” sibilò, “le ho già detto che voglio numeri precisi, non approssimativi.”
Krefeld lo guardò negli occhi, con un sorriso vagamente beffardo. “E io le ho già detto, Comandante Hellwig, che una stima precisa dei dati è impossibile.” Si accomodò meglio sulla poltrona, congiungendo le dita in un gesto che poteva somigliare a una preghiera, ma in realtà voleva esprimere il suo essere conscio della propria superiorità. “Lei ancora non si rende conto di quanti casi non dichiarati continuino a verificarsi ogni giorno. Un’infinità.” Calcò la voce sull’ultima parola. “Non abbiamo certo a disposizione i mezzi per monitorarli. Possiamo solo affidarci a una valutazione statistica.”
Hellwig strinse le labbra. “A che punto siamo con il vaccino?”
La smorfia di Krefeld si accentuò. “Vaccino?” chiese, ironicamente. “Non abbiamo fatto un passo avanti da ieri. Non siamo ancora riusciti a isolare il virus.” Hellwig ebbe un altro moto di stizza.
“Dottor Krefeld, quante settimane sono passate?” “E quindi?” rispose l’altro. “Se lei, Comandante, è capace di fare di meglio, le cedo volentieri il mio posto.” Hellwig si morse la lingua. Non poteva permettersi di punire Krefeld per la sua insolenza: avrebbe perso il miglior virologo esitente. L’altro intuì i suoi pensieri, e assaporò il proprio trionfo, prima di continuare. “Questo virus sfugge a ogni classificazione: è un’entità nuova, mai presentatasi prima. Non è dato sapere da dove sia arrivato, a che tipologia appartenga, come si diffonda il contagio.” Allargò le braccia. “Al momento possiamo farci poco. Come abbiamo detto fin dall’inizio, per ora l’unica soluzione è l’isolamento dei pazienti. Nei casi meno gravi, dopo una quindicina di giorni la malattia scompare così come si è presentata, e non ci sono noti episodi di recidiva. Il vero problema si manifesta nei soggetti in cui la malattia viene scoperta tardi: se lo stato è troppo avanzato, diventa impossibile recuperare il soggetto.”
Hellwig strinse i denti. Lo sapeva, lo sapeva più che bene. Non erano passati neppure due mesi dal primo contagio, e la situazione non accennava a migliorare. Anzi, il numero dei casi aumentava a vista d’occhio. Si sarebbe preso la testa fra le mani, se non gli avesse fatto orrore l’idea di mostrare a qualcuno, e per giunta a Krefeld, la propria debolezza. Si impose di mantenere un tono fermo e deciso. “Bene. Quindi, in quale direzione contate di procedere?”
“Comandante Hellwig, mi perdoni.” I due uomini alzarono la testa. La porta della stanza si era aperta e, sulla soglia, il Tenente Voller, sull’attenti, li scrutava. Il primo istinto di Hellwig sarebbe stato quello di reagire con un duro rimprovero, ma intuì che solo una situazione di emergenza avrebbe potuto spingere il Tenente a interrompere in quel modo un colloquio privato.
“Che succede, Voller?” Il Tenente esitò, rivolgendo uno sguardo di sbieco a Krefeld. “Ho da parlarle urgentemente, Comandante.” Poi, vista la mancanza di reazione, “In privato.”
Hellwig gli fece cenno di avvicinarsi. Voller si chinò, accostandosi a lui quel tanto che bastava affinché Krefeld non sentisse. “Un altro contagio” sussurrò.
Hellwig gli rivolse uno sguardo duro. Stava per domandargli se gli sembrasse cosa normale disturbarlo per quello che era “solo” un altro contagio, quando l’altro lo prevenne: “Garmitz”.
Il Comandante ebbe un sussulto. “Sei sicuro?” chiese, in un soffio.
“Sicurissimo” fu la risposta.
Hellwig scatto’ in piedi. “Dottor Krefeld, mi vedo costretto ad annullare la riunione. Ci aggiorneremo domani.” Senza aggiungere una parola, infilò la porta, seguito da Voller e dal sorriso sardonico di Krefeld.
“Il Sergente Garmitz, quindi” chiese, appena furono fuori.
“Sì.”
“Dannazione. Il nostro uomo migliore.” Voller annuì. “Come e’ andata?”
“L’ho scoperto io, Signore” fu la risposta. “Questa mattina sono passato davanti alla sua porta, ne uscivano strani rumori… Ho appoggiato l’orecchio e ho sentito.”
“Hai sentito.”
“Sì.”
Hellwig inspirò profondamente. “Dove si trova adesso?”
“Nell’Unità di Isolamento.” Già, dove altro?
Continuarono a camminare lungo i corridoi, a passo veloce, in silenzio. Il Comandante stringeva i denti. Garmitz, anche lui: nessuno lo avrebbe mai creduto possibile. Virus maledetto. Ma forse era una forma leggera, forse poteva essere recuperato. Forse non era troppo tardi.
Si fermarono davanti all’Unità di Isolamento. “Stai indietro, Voller” ordinò Hellwig. “Potresti venire contagiato.” Infilò la maschera, e Voller scosse la testa: che valenza poteva avere, una semplice mascherina, contro quel virus sconosciuto? Non espresse, tuttavia, il suo pensiero, per non rischiare di irritare il Comandante.
Hellwig appoggiò l’orecchio alla porta. Dapprima gli giunsero rumori indistinti, poi qualcosa di tenue, un soffio, quasi un sibilo, che pian piano si concretizzò e si fece chiaro nella sua mente. Un’onda di nausea lo travolse.
“Libero, voglio vivere, come rondine…”
“Sta… cantando” commento’ Voller, esitante.
“Ti ho detto di stare indietro!” scattò Hellwig. “Vuoi essere contagiato anche tu? Tieniti a distanza!” Nel dire questo, spalancò la porta e irruppe nell’alloggio. Garmitz si stava pettinando, davanti allo specchio. Non indossava la divisa, ma un paio di jeans e una maglietta di cotone: non era dato sapere dove avesse potuto procurarsi quei pezzi di antiquariato, che Hellwig era convinto fossero spariti dalla faccia della terra da secoli. Continuava a canticchiare, facendo di quando in quando gorgheggi con la voce, e… sorrideva.
“Garmitz, che cosa ti succede?” La voce di Hellwig si era quasi addolcita. Istintivamente, mosse un passo verso il Sergente, ma si ritrasse subito, terrorizzato, non appena questo iniziò ad avanzare deciso verso di lui. Senza la minima preoccupazione, Garmitz fermò il proprio viso a un centimetro dal suo, con un sorriso che apparve quasi satanico. Poi, lentamente ma decisamente, le sue labbra si mossero, e di nuovo ne usci’ una musica.
“Liberi, liberi siamo noi…”
Hellwig rabbrividì “Troppo tardi” sussurrò. “E’ la forma peggiore.” Lentamente, il Capitano indietreggiò e richiuse la porta dell’alloggio. “Andiamo, Voller” ordinò, tornando sui suoi passi. “E’ troppo tardi.”
Tornarono indietro in silenzio, a passo deciso. Giunti davanti alla porta del Centro di Addestramento, una voce attirò la loro attenzione. “Come ben sapete, la deleteria pratica del cantare, che provocava distrazione e distoglieva dagli scopi sovrani del lavoro e dell’obbedienza, si estinse alla fine degli anni 2060, quando fu individuato e somministrato a tutti in via obbligatoria il CC01, il farmaco che ne inibisce la capacità. Ma questo nuovo virus ha provato di essere più forte. Si teme sia stato creato in laboratorio e diffuso con intenti sovversivi…” Con uno scatto, Hellwig si allontanò.
Giunto nel suo ufficio, si sedette alla scrivania. Restò assorto per mezzo minuto, poi sentì le sue labbra muoversi, dischiudersi, e, con orrore, percepì di stare modulando un suono.
“Libero, voglio vivere…”
“Come dice, Comandante?” La voce di Voller lo fece sobbalzare. “Sei ancora qui?” chiese, con stizza.
“Non mi ha ancora congedato.”
“Puoi andare.”
Voller annui’. Infilò la porta, ma non la chiuse del tutto. Attese di sentire di nuovo quel tenue suono.
“Liberi, liberi siamo noi…”
Sorrise soddisfatto. Sì, era troppo tardi. Il contagio si stava diffondendo.
La rivoluzione era iniziata.