Storia di una contrada

Era una contrada remota, arroccata sul versante in ombra della montagna, solcata da stradine strette che separavano muri corrosi dall’umidità, la stessa che si appiccica alla pelle e nutre il muschio perenne. Quella infida che s’insinua nei muri e d’inverno diventa ghiaccio che spacca la pietra, cosicché le case si segnano di crepe sottili che il tempo allarga con pazienza inesorabile.

Da anni era quasi disabitata. Le ultime famiglie di contadini avevano abbandonato le dimore, trovando un futuro più comodo tra i paesi della valle.

La donna era l’unica rimasta. Non usciva mai di casa se non per raccogliere poche erbe di campo, stando bene attenta a non incrociare chicchessia. Con il passare degli anni aveva imparato ad amare il silenzio, ma i primi tempi erano stati duri.

La sera in cui suo padre si accasciò sul tavolo durante la cena, fu colta dal panico. Non capiva cosa stesse accadendo e l’istinto le impose di scattare dalla sedia, uscire sul cortile e gridare aiuto fino a sgolarsi. Passarono diversi minuti in cui l’eco della sua voce, che rimbalzava sulle pareti dei monti, fu l’unica risposta che ricevette. Capì che nessuno sarebbe venuto. Quella gente rude e scorbutica, con cui aveva condiviso la sua vita tra i campi ormai invasi dai rovi attorno alla contrada, era davvero scomparsa. Rientrò in casa, afferrò l’anziano padre sotto le ascelle e lo trascinò di peso sul polveroso sofà. Riempì un catino con dell’acqua, vi intinse un fazzoletto e lo adagiò sulla fronte ancora calda dell’uomo. Lo aveva visto fare da lui stesso quand’era bambina, nei tempi in cui la madre stava male.

Passarono ore, giorni, ma il corpo del vecchio rimase immobile, finché l’odore divenne difficile da tollerare. Lo seppellì nell’orto dietro casa.

 

Non le passò mai per la testa di scendere a valle per avvisare qualcuno della sua presenza. Si limitò a vivere come aveva fatto fino a quel momento, nell’unico luogo che conosceva. Un orto da curare, legna per il fuoco, la cenere per lavare i panni al ruscello e una trota una volta alla settimana, quando sentiva le campane riecheggiare a lungo in lontananza. Voleva dire che era domenica, il giorno in cui suo padre si recava al ruscello e tornava con due bei pesci. Era tutto ciò che si sentì di mantenere come legame con lui.

Non mise mai piede nella sua stanza, che chiuse a chiave il giorno dopo averlo seppellito e non riaprì mai più. Con il passare del tempo si dimenticò di come si parlava, non vi era nessuno con cui farlo e non credeva che gli spiriti dei suoi cari potessero davvero udirla. Aveva sempre creduto solo in ciò che poteva toccare e vedere. Al massimo si limitava a fischiettare, di quando in quando, ma solo per accompagnare le attività in casa. Quando vagava per i boschi o vicino al torrente non emetteva un fiato perché sentiva di dover lasciare la natura libera di esprimersi, senza interrompere quel soverchiante moto che la governava. Dopo qualche tempo smise anche di pensare e porsi domande.

Ogni settimana eseguiva le medesime azioni, giorno dopo giorno, dalla mattina al tramonto, adattandosi ai ritmi delle stagioni. Non si guardava mai attorno e i suoi movimenti erano divenuti meccanici, figli di un’alcova sicura che si era creata, radicata in un eterno presente per non doversi accorgere di essere sola al mondo, per non chiedersi se avesse prima o poi dovuto fare qualcosa di diverso.

Passarono gli anni e la sua pelle cominciò a divenire ruvida e solcata da rughe spesse. La schiena giorno dopo giorno si piegava sotto i colpi dell’umidità e del lavoro nell’orto, cosicché avanzava ormai incurvata. I denti, nonostante i lavaggi operati con salvia, iniziarono a ingiallirsi, dolere e infine cadere. I capelli scarmigliati, raccolti a fatica in un lacero foulard, si imbiancavano con più decisione ad ogni alba.

 

Conosceva ormai ogni suono e odore circostante. Poteva riconoscere seduta stante i segnali delle stagioni che iniziavano a mutare, i passaggi fugaci degli animali e il cambio del clima annusando il vento. Nulla, nel respiro del mondo che le vibrava attorno, era per lei segreto. Cosicché quella mattina, quando scese in cucina e spalancò la finestra che guardava verso il bosco, rimase interdetta nel percepire una fragranza che le parve di non aver mai odorato. Si bloccò con le mani sui pesanti abbaini di legno e aggrottò la fronte. L’odore che vagava nell’aria non era selvatico come quello dei camosci, ma piuttosto dolciastro. Era estate inoltrata e non poteva trattarsi di un aroma di piante: la fioritura era terminata da un pezzo. Nella sua mente si materializzò un’immagine antica. Risaliva ai tempi in cui nella contrada rimanevano ancora abbastanza abitanti, cosicché qualche mercante si prendeva ancora la briga di affrontare l’ardua salita del costone, pur di racimolare qualche franco. Ricordò che uno di questi uomini aveva portato con sé delle piccole pietre, tenere e squadrate, la cui funzione era togliere lo sporco dal bucato, in sostituzione della cenere. Non ne ricordava il nome, ma emanavano un intenso aroma di buono. Sorrise a quel ricordo, pensando all’improbabilità che un mercante potesse aver ripercorso il sentiero che dalla valle portava alla contrada, ormai inghiottito dalla ricrescita di cespugli aguzzi.

Si voltò, attraversò la cucina e agguantò un secchio con l’intenzione di recarsi al ruscello. Spalancata la porta, il fiato le si spense nel petto. Rimase immobile sulla soglia osservando dinanzi a sé, con occhi gonfi di stupore e timore. Una figura minuta, anch’essa immobile, si stagliava sul praticello dinanzi alla casa, a pochi metri di distanza. Persino il canto degli uccelli morì sotto il peso della tensione che si librò nell’aria. Seguirono attimi di denso silenzio in cui la vecchia scrutò la nuova presenza da cima a fondo, scavando ancora nei suoi ricordi, cercando di capire che cosa fosse. Vi era qualcosa di familiare in quell’apparizione, nei suoi capelli corvini raccolti in un foulard a fiori. Osservò le caviglie gracili che sbucavano dalla lunga gonna e il corpicino coperto da un maglione di lana bianca.

L’immagine le ritornò con chiarezza. Rivide lo sguardo sornione del mercante, il movimento celere della sua mano a scoprire la lastra e rammentò il tonfo al cuore che la colse. Non aveva mai visto sé stessa. Fu la prima e l’ultima volta che si trovò dinanzi a uno specchio e l’immagine di lei l’aveva spaventata, facendola indietreggiare fino a nascondersi tra le gambe della madre, sommersa dalle risate sguaiate dei vicini. Non aveva mai scordato quella sensazione: un fastidioso movimento stomacale, che ora ritornava dinanzi a questa nuova presenza che le ricordava sé stessa.

La bambina si manteneva immobile dinanzi a lei, gli occhi spalancati, le braccia rigide lungo i fianchi. Tremava impaurita. La vecchia non sapeva che fare, anch’essa inchiodata al terreno, con il secchio in mano e lo sguardo nel passato.

Un antico suono riecheggiò nell’aria. Il verso di un animale distante, oltre la contrada. La vecchia alzò lo sguardo verso i campi e vide la vacca che brucava i fili d’erba. D’improvviso la bambina si voltò e scattò. L’anziana fece un passo in avanti, voleva urlarle di fermarsi. Non ne comprendeva la ragione, ma sentiva che se non l’avesse bloccata qualcosa di terribile sarebbe avvenuto. La fanciulla corse per pochi metri, quindi scivolò sull’erba umida e finì a sbattere sulle pietre del muretto a secco che costeggiava la stradina. La vecchia lasciò andare il secchio e corse da lei. Il corpo giaceva disteso a pancia in giù, le piccole braccia aperte con i palmi rivolti alla terra, gli occhi perduti nel vuoto. Dalle labbra socchiuse fuoriusciva un suono gutturale.

L’anziana si spaventò a morte: il cuore accelerò, le si scaldò il viso e gocce di sudore le imperlarono la fronte. Sensazioni che il suo corpo non provava da troppo tempo ormai. Si sedette a fianco della bambina, senza sapere cosa fare. Si sfregava il viso agitata, avvicinava le mani al corpicino, quindi le ritirava. Una sensazione tremula di pianto iniziò a salirle dalla gola. In quel momento un rumore di zoccoli la distrasse, si voltò vedendo la vacca che avanzava verso di lei e fece appena in tempo a scostarsi prima che l’animale la soverchiasse. Si riparò dietro al muretto e osservò la scena.

La bestia avvicinò il muso al viso pallido della bambina, ungendolo con il muco del grosso naso, alzò la testa e proferì uno straziante muggito che si perse nell’aria. Si voltò e ripercorse al galoppo la stradina che usciva dalla contrada, perdendosi tra i cespugli. Solo allora la vecchia uscì dal suo nascondiglio. Con uno sforzo sovrumano sollevò la bambina e si guardò attorno. Con il corpo tra le braccia entrò in casa e adagiò la fanciulla sul sofà, per poi correre al ruscello così veloce che le gambe le divennero dure come pietra. Quando ritornò con il secchio colmo d’acqua la bambina giaceva esanime, nella stessa posizione in cui l’aveva lasciata. Non udiva più il rantolo uscire dalla bocca e gli occhi fissavano il vuoto.

 

Agì d’istinto, come molti anni prima con suo padre, applicando le poche conoscenze di cui era in possesso. Intinse un panno nel secchio e si mise a lavorare sulla fronte della bambina, lavando il sangue dalla tempia e il muco dal naso. Ma il corpo non rispondeva. Col passare dei minuti la paura iniziò a farsi largo nel suo petto e ad accompagnare i respiri agitati, fino a divenire panico. Sentì che doveva liberarsi di quella situazione. Un sesto senso produceva immagini granulose nella sua mente: luci, visi scuri e aggrottati, sguardi minacciosi. Si affacciò alla finestra e serrati gli occhi si concentrò sui rumori attorno. Nessun suono sconosciuto solcava l’aria. Si ricordò di quando la madre la prendeva in braccio per accompagnarla a dormire, quindi con uno sforzo inaudito a cui non era abituata, prese la bambina sotto le ascelle e la sollevò dal divano, issandola in modo che la testolina poggiasse sulla sua spalla.

Uscì di casa e percorse il sentiero che portava al ruscello inoltrandosi nel bosco. Superati i primi cespugli camminò ancora per diverso tempo, finché le fronde degli alberi furono così fitte da ostacolare il passaggio della luce. Solo a quel punto si rese conto di essere sfinita. Piegatasi sulle ginocchia lasciò che il corpicino scivolasse e lo accompagnò verso il terreno, percependo le guance fredde della fanciulla che strusciavano sulle sue.

L’adagiò sul letto di foglie umide e le raccolse le mani sul grembo. Sua madre giaceva allo stesso modo in quel giorno di molti anni prima e le parve che quella dovesse essere la posizione in cui si dovevano lasciare i morti. Si alzò in piedi a fatica, la schiena le doleva in modo terribile. Diede un ultimo sguardo affranto alla creatura prima di voltarsi e ritornare sui suoi passi. Una volta rientrata in casa crollò disfatta sul letto e cadde in un sonno profondo, una fuga ristoratrice dagli eventi incommensurabili di quel mattino.

 

Un rumore improvviso la svegliò di soprassalto. Spalancò gli occhi ancora annebbiati e le immagini recenti ritornarono, assieme all’angoscia quietata dal sonno. La luce della stanza le apparve fioca e comprese che dovevano essere passate diverse ore. L’oscurità era prossima.

Di nuovo quel suono spaventoso la fece vibrare. Si alzò a fatica e si affacciò alla finestra. L’abituale silenzio che la circondava era violentato da rumori perduti nella sua memoria, che sapeva di conoscere ma che da troppo tempo ormai non udiva. Filtravano attutiti dal folto intrico di rami del bosco dietro la casa. Fruscii e stridi acuti. Si concentrò e le immagini ritornarono alla sua mente: animali e uomini. Si avvicinavano squassando rami, smuovendo foglie e spaventando gli uccelli che fuggivano all’impazzata.

Un nodo le si formò in gola. Scese dal letto, si affacciò alla finestra che dava sul bosco e si sentì gelare. Nell’oscurità, tra il fogliame, brillavano delle luci. Sarebbero giunti presto e avrebbero rivoltato la contrada intera per ritrovare la bambina. Cosa dire loro? Cosa fare? Come guardarli negli occhi se l’avessero incontrata? La risposta a queste domande era così distante dalla sua realtà da apparire inimmaginabile.

L’istinto primordiale si impadronì di lei: sopravvivere. Entrò in cucina, estrasse un coltello dal cassetto e tese le orecchie. I rumori erano ancora distanti e affievoliti dalla vegetazione: aveva tempo. Con rapidità sgattaiolò fuori dalla porta e si infilò nelle antiche stradine, per allontanarsi e cercare un rifugio da quell’immensità che le stava venendo contro. Corse in salita e raggiunse l’ultima casa della contrada, una dimora dismessa da tempo immemore, con il tetto sfondato e la polvere ormai incrostata sui muri e gli stipiti. Un luogo in cui nessun essere umano poteva star vivendo. Si trovava sulla sommità di un colle che dominava la contrada e le offriva una visuale adeguata per controllare i movimenti davanti alla sua casa.

Senza pensarci superò il tappeto di ortiche che infestava il cortiletto e penetrò nell’odore stantio. Si sedette ansimante con la schiena appoggiata al muro, chiuse gli occhi e d’istinto si fece il segno della croce con la stessa mano in cui brandiva il coltello. In pochi attimi recuperò il respiro e si rimise all’ascolto. I suoni a poco a poco si fecero più nitidi e i fruscii della foresta in lontananza divennero passi di scarponi chiodati. I rumori gutturali che si spegnevano tra i rami divennero voci che emettevano parole confuse.

Il sudore iniziò a colarle dalla fronte. D’un tratto una parola conosciuta. Contrada. Qualcuna di quelle voci l’aveva pronunciata con chiarezza. Si avvicinò alla finestra e con un movimento delicato mosse uno dei balconi senza farlo stridere. Il cuore le arrivò in gola. Li vedeva: quattro sagome scure si avvicinavano all’imbocco dell’abitato, muovendosi circospetti nella penombra. Due uomini, alti e robusti, tenevano le torce in una mano e nell’altra brandivano i fucili. Un’altro più esile, di sicuro un ragazzino, li seguiva tenendo il braccio teso verso una figura agitata, più piccola delle altre. Non capì subito che cosa fosse e dovette scavare ancora nei suoi ricordi. Un latrato lacerò il silenzio e la riportò all’immagine che cercava, quella del robusto cane dei vicini di casa, un enorme pastore tedesco che la terrorizzava da bambina, quando dalla finestra incrociava i suoi occhi lucenti durante le notti di luna. La paura ritornò feroce e la sua attenzione venne attirata da un movimento del braccio del ragazzino. Osservò concentrata aiutandosi con la luce emanata dalle torce. Il ragazzo agitava con lentezza un panno sotto il naso della bestia e questa annusava assorta. Gli altri due uomini, immobili, attendevano nel silenzio disturbato appena dal fruscìo delle foglie del bosco. Quindi la scena si sconvolse di colpo. Il cane guaì, abbaiò per due volte mentre strattonava il braccio del ragazzo che a stento riusciva a governarlo. La vecchia, assistendo a ciò che accadeva, riprese a tremare.

Il cane si diresse verso la porta della sua casa, annusando e abbaiando a tratti, seguito dagli uomini. Si sollevò sulle zampe posteriori e pose le anteriori sulla porta sgualcita, grattando in maniera forsennata mentre ansimava: aveva fiutato l’odore della bambina. Il ragazzino prese ad accarezzarlo e i due uomini si accostarono alle finestre avvicinando le torce per illuminare l’interno della dimora. Si scambiavano parole confuse e aprivano le braccia come a interrogarsi tra loro. Traspariva dai movimenti la sorpresa di ricevere dal cane quelle indicazioni, quand’era evidente che l’aspetto della casa non lasciava pensare che fosse abitata. Ma il cane non si calmava. Uno dei due uomini guardò i compagni, quindi inarcò il petto quasi volesse prender coraggio e si accostò alla porta. Battè con il pugno due colpi secchi, chiamando a gran voce. Ripeté il gesto una seconda volta, ottenendo come risposta solo il fruscìo del bosco. Quindi, con movimenti decisi posò il fucile al muro, estrasse un arnese appuntito dalla cintura e si mise a lavorare sulla toppa della porta.

La vecchia, bloccata dal panico, stava ormai per mettersi a piangere quando un colpo di vento inatteso invase l’abitato. Il cane, che aveva ripreso a girare in tondo, lanciò un acutissimo latrato, riprese ad abbaiare in modo imperioso, si liberò della presa del ragazzo e scattò irrefrenabile verso il bosco. Le tre figure seguirono di scatto il suo esempio e in pochi secondi si dileguarono nel campo, correndo appresso all’animale, fino a che furono inghiottiti dal bosco. L’anziana crollò sul pavimento: senza dubbio il cane aveva odorato il corpo della bambina, disteso tra gli alberi.

Con le mani sul viso sciolse la tensione in pianto e si accasciò, sfinita, sul pavimento. Le sue membra le parvero fatte di legno e svenne. Ancora una volta, quando riaprì gli occhi smarrita, dovette attendere qualche attimo prima di ricordarsi dov’era. Ma ciò che l’aveva svegliata non tardò a riportarla alla realtà. Si affacciò alla finestra e tese le orecchie. Un suono acuto proveniva dal bosco. Un pianto grottesco, disperato, un miscuglio di urla e lamenti. Avevano trovato il corpo.

La vecchia rimase imbambolata alla finestra, rapita da quell’urlo di ancestrale dolore che aumentava ad ogni istante. Le figure ricomparvero molto presto al margine del bosco, muovendosi rapide. Uno degli uomini faceva strada con la torcia spianata, dietro di lui veniva l’altro che correva ingobbito e urlante, con in braccio la bambina. Come una scia di luce attraversarono il campo e scomparvero nel sentiero che si inoltrava nel bosco, verso valle. Il silenzio durò poco perché il cane e il ragazzo, con in mano la seconda torcia, uscirono dal fogliame. Il giovane camminava lento e indeciso, quasi barcollante. La vecchia potè udire chiaramente i singhiozzi che ballavano nell’aria, finché anche lui e il cane scomparvero presto nel folto della vegetazione, verso valle.

 

La donna si distese a terra, respirò a fondo e si portò una mano al petto, ascoltando il battito forsennato del cuore che, con il passare dei minuti, rallentò. Più tardi, quando le tornarono le forze, si alzò sulle ginocchia e spiò dalla finestra. Il nero della notte, increspato appena da qualche bagliore lunare, dominava la contrada tappata dal silenzio. Pose le mani sul davanzale e fece forza, ritrovando la posizione eretta e l’equilibrio. Ingobbita dall’umidità e riarsa dalla sete si diresse verso la porta diroccata e si immerse nella stradina buia.

Scese verso casa sua, camminando con lentezza, coltello alla mano, lanciando sguardi acuti intorno. A mano a mano che si avvicinava si sentiva sollevata. La stradina terminò, la donna superò il muretto ed entrò nel suo piccolo cortile. Quando fu davanti alla porta ed estrasse la chiave notò una sagoma allungata, poggiata al muro di pietre. Si avvicinò all’oggetto e lo toccò con le dita. Lo spavento ritornò a toglierle il fiato: uno degli uomini aveva dimenticato il fucile. Non ebbe il tempo di pensare perché il fruscìo perpetuo del bosco venne percosso da un rumore secco. Rami spezzati, pensò. Alzò lo sguardo verso la stradina che usciva dalla contrada, la luce della torcia illuminava già i contorni dei muri e un annaspare irrequieto pareva precederla. Il cane, comprese terrorizzata.

Si tappò la bocca d’istinto e con uno scatto si nascose dietro al muretto. Il giovanotto, guidato dal cane, comparve un attimo dopo. Avanzava sicuro nelle tenebre e la luce illuminava appena il viso ancora solcato dalla sofferenza. Il ragazzo raggiunse veloce il fucile e lo raccolse senza guardarsi attorno, si voltò e mentre stava imboccando la strada del ritorno dovette fermarsi perché il cane ringhiava. Lo richiamò una volta ma l’animale, ormai teso, puntava imperterrito in direzione del muretto di pietre e il suo ringhio si faceva più acuto. Il giovane non riuscì a richiamarlo una seconda volta.

La bestia scattò e con un salto scomparve dietro il muretto dal quale emerse seduta stante un guaito lancinante. Il ragazzo, spaventato, sparò un colpo in aria gridando il nome cane. Mentre l’animale ferito fuggiva allontanandosi verso il bosco, l’urlo di terrore della vecchia irruppe nella scena. Un suono ritmato, come una stridula risata, riempì la contrada mentre i raggi della luna illuminavano il contorno scuro e ingobbito della donna che brandiva il coltello sopra la testa scarmigliata. Il ragazzo, bianco per lo spavento, prese a correre all’indietro, incespicò sui cespugli e cadde ruzzolando tra le ortiche della strada. Quindi si rialzò e scomparve lungo il sentiero che conduceva nel bosco. Le sue grida si affievolivano man mano che s’inoltrava tra gli alberi, ma la vecchia udì con chiarezza le parole: “La strega!”, urlava.

La donna si inginocchiò sul selciato di fronte alla casa, il coltello in mano e gli occhi perduti nel vuoto. Quando tornò il silenzio si scosse, potendo percepire il dolore. Alzò la mano tremante e toccò il sangue che colava da uno squarcio profondo appena sotto la gola.

Il cane aveva mirato bene.

Con le ultime forze rimastele si trascinò in casa, intinse un fazzoletto nel secchio d’acqua e se lo pose sul collo. Quindi si distese sul sofà e svenne quasi subito.

Quella notte sognò i mercanti.

 

L’indomani mattina i paesani salirono alla contrada e trovarono la donna nella stessa posizione. Due di loro erano nati lassù molti anni prima, e non poterono evitare di guardarsi per un istante negli occhi vibranti, senza dire nulla.

In silenzio, quasi temendo di disturbare, avvolsero il corpo in una coperta e la trasportarono a valle dove la seppellirono nel camposanto del paese.                                      

 Nicola Bellin – 2020

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