
Mi trovavo al Blu bar assieme ad Ale. Il Blu era un piccolo locale della pedemontana vicentina, proprio sulla strada che portava al confine con la provincia di Trento. Allora mi sembrava che tutti questi posti appoggiati alle montagne, fossero paesi morti, senza vita o prospettive e forse, ripensandoci ora, non avevo sbagliato di molto. Il locale però mi piaceva perché non c’erano i soliti boeri sopra il banco e quando ordinavi a Carlo, il barista, qualcosa di alcolico, anche se non avevi propriamente diciotto anni chiudeva un occhio. Se poi chiedevi a Carlo un cocktail, ti guardava male e ti portava un bianco dicendoti che il negroni, lì dentro, si faceva in quel modo ed era divertente vedere la faccia di quelli a cui veniva servito.
La compagnia che frequentava abitualmente il bar non era composta dai soliti contadini o montanari locali, ma da gente che sembrava interessante e che non faceva domande. Infine, costava poco e per chi come me era sempre senza soldi era una caratteristica fondamentale. Insomma i motivi c’erano ed erano decisivi per quanto mi riguardava, ma quello che mi piaceva di più era che la musica che Carlo metteva era sempre buona. Il punk non era ancora arrivato in quella valle, anche se potevi vedere lo stesso in giro, i soliti tipi con braghe di raso e la striscia rossa a lato e il chiodo sopra la maglietta strappata, qualche volta perfino rasati e con la cresta colorata. Ogni tanto riuscivano a far mettere sul piatto i loro dischi e a me che piaceva il punk andava bene, ma per molti quella non era musica, dicevano che quei gruppi non sapevano nemmeno suonare e anche il Mucchio aveva scritto che non valevano niente. Si sentiva dire addirittura che fosse tutta una montatura di un produttore inglese, una truffa per fare soldi. Rock’n’roll e suonato pure male.
Io passavo per quello strano ma il punk lo conoscevamo in pochi e nella provincia profonda non esistevano locali o compagnie per quelli come me che non si potevano spostare. Se non avevi una famiglia che si poteva permettere di mandarti ai concerti o alle feste a Padova o Vicenza, lo sentivi solo alla radio o da compagni di classe che venivano da Bassano o dal capoluogo. A me, a dire il vero, piaceva tutta la musica a parte il metal, troppo sdolcinato, tutti ascoltavano Scorpions e Iron Maiden, io avevo bisogno degli MC5 o degli Stooges per sentire la cattiveria nelle chitarre. Poi vestivo normale, andavo a scuola normale, mi rompevo il cazzo normale, avevo problemi con i miei normale. Ogni tanto Ale mi portava a qualche festa e lì mi sentivo a New York, a fare esperienze che gli altri miei amici, quelli normali che frequentavo durante la settimana non facevano. Ale era New Wave e girava con la giacca e la cravatta di pelle nera. Lui era il mio dio della musica New Wave e Dark e ci sapeva fare alla grande con le ragazze.
“Metti su qualcosa di decente” dall’altro tavolo a Carlo, “metti i Camel”
A quel punto i baiosi, come chiamavamo i metallari, se ne andavano bestemmiando e Ale mi guardava alzando gli occhi al cielo.
“Mai che si sentano i Talking o gli Ultravox”.
Durava un attimo e poi ci rimettevamo a parlare delle nostre solite cose, ragazze, politica, mondo. La politica ci appassionava da morire, ci sembrava che si potesse cambiare tutto, discutevamo degli attentati, delle botte che i comunisti si davano ogni giorno con i fascisti, di Padova che era prima linea e si sprangavano i professori, di Autonomia operaia o di lotta armata. Non ne sapevamo nulla, noi andavamo ancora a scuola e la fabbrica era un luogo lontano, ma c’era appena stata la bomba che aveva ammazzato i tre a Thiene e parlarne era un modo per essere vivi.
“Prendo un altro sacchetto?” Ovvio che dovevo prenderne un altro.
Se volevi mangiare con il vino o la birra prendevi un sacchetto di patatine e lo aprivi sopra il tavolo di formica, non c’erano alternative.
Mi accesi una sigaretta. In pubblico fumavo senza filtro anche se le Camel mi spaccavano i polmoni.
Si avvicina Carlo, e ci fa a voce bassa:
“C’è il professore oggi” e guarda verso un tavolo dove quattro, vestiti non male, stanno seduti parlando fitti fra di loro. Uno si vede chiaramente che ha un’altra età e quando parla gli altri lo guardano con attenzione, quasi a carpire il significato nascosto delle parole. Noi guardiamo Carlo con una faccia da cui trapelava che non capivamo.
“Quello di Padova, quello di autonomia” detto al limite dell’udibile che potevamo essercela inventata noi l’ultima parola.
Carlo ci conosceva perché ogni tanto andavamo lì a parlare, Ale ed io, ma non era il nostro bar, il bar nostro era quello del prete per me e quello del circolo Arci per Ale. Lui abitava in un altro paese e noi ci conoscevamo per questioni di famiglia.
Ci toccava incontrarci in territorio neutro. Lui per me era ciò che volevo essere, bello, con i vestiti e la vespa che tutti dovevano avere per essere a posto e farsi notare. Se voleva poteva andare alle feste con i ventenni a Vicenza o a Bassano, faceva l’artistico e i suoi gli perdonavano tutto. Lo invidiavo nel profondo, per la sua cravatta stretta di pelle nera e perché aveva la moto 125. Io volevo una Cagiva ma i miei non se la potevano permettere e mi toccava il motorino vecchio di famiglia che quasi perdeva i pezzi. Per fortuna che all’Itis c’erano i geni della meccanica e io ero a elettronica e avevo messo i mollettoni da cross e la sella Polini che lo facevano sembrare un po’ meglio, ma nei rettilinei rimanevo comunque sempre indietro.
Non capivo perché Ale fosse così mio amico, ma io me la godevo e facevo passare come fossero mie le storie che lui mi raccontava. Non dovevo farmi vedere con lui dagli altri amici e tenerlo per me, esser vago su quello che non avevo chiaro, e inventare particolari abbastanza difficili da capire, in maniera che chi mi conosceva non mi chiedesse dov’ero stato. In pratica mi rivendevo le sue storie come fossero mie, ampliandole, modificandole e rendendole verosimili.
Ale si sporge sopra il tavolo e comincia a parlarmi:
“Sai che in altopiano ci sono i campi di addestramento delle Brigate Rosse?”
“Ma dai, non è vero, figurati se la colonna romana va a finire in altopiano con tutte le montagne che ci sono là vicino.”
“Cosa c’entra la colonna romana, neanche quella di Torino o di Genova vengono qua, ma sai quanti ce ne sono qui? Autonomia, Brigate Rosse, Nuclei Armati Proletari e se vuoi continuo. Quelli di Padova dove pensi che vadano?”
C’era solo Padova, Vicenza non era niente. Per noi che avevamo in testa la politica quasi più della musica, la città del Santo era la prima linea.
A Vicenza si andava a fare un giro in corso Palladio, si entrava al Saxophone per vedere i dischi e da De Toni per provare le chitarre, ma basta. I cittadini erano quasi peggio dei bassanesi, almeno loro avevano lo Shindy, il locale dark più bello del Veneto, a Vicenza c’erano solo professori e gente che se la tirava.
“Quest’estate voglio andare a Berlino, vado a vedere la Bahnohf Zoo e dicono che puoi trovare Iggy e Bowie in giro a camminare lungo il muro”
“Mah, io non so…”, ma lo sapevo benissimo, sarei andato a lavorare per comperarmi una chitarra a dodici corde come quella di Bennato, perché a me i cantautori piacevano e quando sapevi suonare Un giorno credi le ragazze ti guardavano.
“Voglio andare a Bologna appena compio gli anni, dicono che Guccini se suoni ti apre e ti dà un bicchiere di vino, fra un mese ne ho diciotto e vado”.
Ma la paura vera era quella che arrivasse la cartolina e di dover partire prima della fine dell’estate. Fregarsi l’estate per andare militare era il peggio che poteva capitarti. Dovevo trovare il modo, se scampavo per quei mesi alla chiamata, di iscrivermi al prossimo anno di università e quindi rimandare o fare il servizio civile.
Ormai avevamo finito di bere e stavamo lì più che altro per non dover andare a casa. Ogni tanto guardavo il tavolo del prof, cercavo di farlo senza darmi a vedere, che se erano di autonomia per davvero e mi prendevano male, quelli erano capaci di aspettarmi da qualche parte per gambizzarmi.
“Cosa si staranno dicendo?”
“Non so, magari parlano solo di politica”, ma la faccia del mio amico mi fece capire che non ci credeva per niente, “oppure stanno progettando un rapimento come quello di Berto”
“Forse quello, o una bomba alla pula”.
“Ma questi sparano, hai sentito di Sossi”
“Un giudice, capirai, chissà cosa gli ha fatto passare a quelli in carcere”
“Che volevi che li lasciassero stare?”
“Intanto questi li prendono e quelli delle bombe nelle piazze sono in sud America”
Continuavamo così per ore mescolando fatti, opinioni e leggende. A noi quella gente lì sembrava come i partigiani, come i cowboy, come i soldatini Atlantic con cui giocavamo da piccoli, ma non sapevamo deciderci se bisognava stare dalla loro parte, da quella degli operai, o da quella dei gambizzati, dei rapiti. Si sentiva ogni giorno di omicidi, di capireparto a cui avevano sparato, di incarcerati senza motivo, di giudici ammazzati. I telegiornali battevano il tasto dell’eversione ma chi diceva di sapere le cose, perché conosceva le persone giuste parlava di strategia della tensione. Tutto era diventato un rumore di sottofondo. Per noi, protetti dalla provincia, non era ancora abbastanza reale, e magari loro stavano veramente solo bevendosi una birra.
Ormai i silenzi si erano fatti più lunghi dei discorsi ed era ora di andare.
Stavamo quasi per alzarci quando entra un tipo che aveva appena parcheggiato il vespone 150. Barba quasi bianca, sporco, jeans e giubbotto di pelle che sarebbero stati meglio in California venti anni prima. Si avvicina al banco battendo a terra gli scarponi di cuoio da montagna infangati e dice qualcosa a voce bassa a Carlo che si mette a trafficare nei cassetti sotto il bancone. Intanto, lentamente, gettando prima degli sguardi dietro di se, si volta e si mette ad osservare rilassato, con i gomiti appoggiati al bancone. Improvvisamente la testa si ferma immobile a guardare il tavolo dove c’è il prof, si allontana dal banco e si blocca a gambe larghe prendendo fiato. Sporge la gabbia toracica gonfia d’aria come volesse prendere una rincorsa e caccia un urlo
“Brutto comunista di merda che cazzo ci fai qui?”
Immediatamente tutto si ferma.
Nessuno si volta a guardare ma tutti sanno a chi è rivolta quella frase, lanciata come una bestemmia.
Io lo vedo proprio davanti a me, vedo che mette la mano in tasca e ne tira fuori qualcosa di ovale che poggia con un tonfo sordo sopra il banco. Il silenzio diviene ancora più profondo, l’aria densa e immobile.
Tutti guardano e chi non può vedere è costretto dalla tensione a girarsi e sbirciare sopra il banco cosa è stato quel tonfo sordo.
Sulla superficie di acciaio satinato, fa bella mostra una bomba a mano come quelle che si vedono nei film.
Carlo è bianco come uno straccio e si appoggia alla parete cercando di stare più lontano possibile da quell’ordigno, ma trova lo stesso la forza di biascicare:
“É carica?”
“Certo che è carica e perfettamente a posto”, si ferma e butta uno sguardo a tutti, “tranquilli, non può fare nulla, io devo venderla mica usarla, quello lo fanno quelli là” e indica con la mano il tavolo del prof, che non ha mai smesso di parlare ma che a quel gesto si ferma per un attimo, guarda il personaggio e subito, come fosse cosa da poco, riprende per i fatti suoi.
“Portala via o chiamo la pula” è Carlo che ha trovato il coraggio di parlare.
“Dai aspetto gente…mica voglio farci saltare in aria” ma mette la bomba in tasca e si sente un respiro di sollievo collettivo.
“Mi hai fatto la spuma?”
La scena è assurda, chi era vicino alla porta se n’è andato ma di sicuro non chiama i carabinieri, quelle cose non si fanno, chi era seduto, come noi due, rimane lì e aspetta di vedere come prosegue la faccenda. Il prof intanto continua a parlare fitto con i tre al tavolo che sembrano non essersi accorti di nulla.
Ale mi guarda e mi fa segni con la testa, come invitandomi ad andare, ma io non voglio, ora voglio vedere cosa succede. Ho sempre avuto una fifa boia che mi ha tenuto lontano dai pericoli e dalle cose che potrebbero diventare conflitto, ma quando ci sono dentro mi diverto ed ho scoperto che essere nei casini mi piace.
Ho una vita che è fatta così, noia e qualche momento di caos.
Intanto le cose nel bar vanno verso una loro direzione ben precisa e adesso il trafficante, perché ormai s’è capito cosa ci faceva con la bomba, si sta avvicinando al tavolo dei quattro padovani.
Ale, che ne sa più di me, mi sussurra: “mi sa che va a finire in merda, meglio che paghiamo e andiamo”. Stavolta ha ragione e faccio per alzarmi, ma una mano si appoggia alla mia spalla impedendomi di alzarmi.
“Porta due bianchi a ‘sto tavolo” è il bombarolo che si è spostato dietro di me
Ora so che andrà a finire in merda, almeno per me.
Improvvisamente non mi sembra più così divertente stare nel caos.
“Allora cosa state facendo di bello?” Il trafficante ora si è appoggiato agli schienali delle sedie davanti al prof, tiene le braccia appoggiate alle schiene dei due davanti a lui e si vede che sta esercitando una certa forza.
“Lasciami stare”. La voce è una fucilata con il silenziatore, bassa di volume e di tonalità, nessuna frequenza e nessuna parola in più del necessario. Il prof sì è appoggiato allo schienale e guarda fisso, è seduto ma pare più alto dell’omuncolo che gli sta davanti.
“Fascio vai via e fa le tue cose senza disturbare!”
L’unica cosa che si muove è la bocca del padovano e l’intero bar guarda i due decidendo ognuno per sé qual è la cosa migliore da fare per evitare di farsi male.
Di solito quando si comincia così non va a finire bene e io cerco di calcolare in quanto tempo riesco ad arrivare alla porta che si apre per dentro. Immagino che anche Ale faccia lo stesso perché i suoi occhi sono fissi all’esterno. Guardo meglio e vedo che oltre la porta, dove sta guardando Ale, si è fermata una Citroen, uno squalo scassato e color caffellatte come andava di moda fra i vecchi di allora.
Di solito quella era la macchina degli spacciatori.
Scendono due che sembrano dei giostrai, salgono i tre scalini ed entrano senza dire nulla.
Il trafficante si gira e lancia loro la bomba a mano, che aveva ripescato dalla tasca del giubbotto, come se fosse la cosa più naturale del mondo.
È come se fosse stato dato un segnale, faccio a tempo a vedere due di quelli che erano con il prof alzarsi e tirare un pugno senza preavviso al personaggio appoggiato alle sedie, i due appena entrati si lanciano verso il prof e nel locale la gente comincia a scappare verso la porta. Ale mi fa un cenno con la testa e guardiamo Carlo che ci fa segno di andare, pagheremo un’altra volta.
Se riusciamo a prendere i motorini senza farci male, possiamo correre diretti in riva all’Astico, all’Isolon e questi laggiù non ci prendono. Arriviamo per primi alla porta e corriamo fuori cercando di scappare più veloci che possiamo, saltiamo direttamente i tre gradini e per poco non finisco sul cofano della Citroen, intanto mi abbasso il più possibile, aspettandomi di sentire colpi di pistola o peggio. Correndo giriamo l’angolo dove ci sono i motorini e sentiamo lo schianto della vetrina che viene giù. Non ci voltiamo e partiamo a spinta per fare prima.
Per fortuna ci allontaniamo di corsa, evitando casini, soprattutto la DIGOS che si sa è dappertutto e potrebbe interrogarci e non è mai una bella cosa anche perché lo verrebbero a sapere in famiglia e non ci sarebbe più fine alle rotture di palle.
Arrivati all’Isolon ci buttiamo sotto un albero e ci facciamo passare due tiri per cinquecento lire da un tossico a caso. A quel punto ci viene da ridere per lo scampato pericolo e complice il fumo non smettiamo fino a quando il riso non si trasforma in un ghigno isterico. Il tossico ci guarda e forse per compassione ci lascia tutto. Finito di fumare saluto Ale con la promessa che ci avrei pensato sul serio ad andare a Berlino e magari starci qualche tempo.
Magari l’avrei anche fatto, ma una settimana dopo mi arrivò la cartolina per la naia e a quel punto Berlino, Bologna e qualsiasi cosa volevo fare diventarono storie sentite raccontare.
Anche il Blu chiuse subito dopo per non riaprire più.
2020 – Paolo Costa